ll relativismo contemporaneo filosofia inevitabile e virtuosa di Dario
Antiseri, la Repubblica, il 19 aprile 2012, http://www.dirittiglobali.it
«Non esiste un principio etico
razionale che valga più di altri»
«Nel campo di coloro che cercano
la verità non esiste nessuna autorità umana e chiunque tenti di fare il
magistrato viene travolto dalle risate degli dèi». È questo il messaggio
epistemologico di Albert Einstein. Lo stesso di quello di Karl Popper: «Tutta
la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. Il vecchio ideale
scientifico dell'episteme — della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile
— si è rivelato un idolo. L'esigenza dell'oggettività scientifica rende
ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per
sempre allo stato di tentativo. Non il possesso della conoscenza, della verità
irrefutabile, fa l'uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e
inquieta della verità». Tutta la ricerca scientifica, in qualsiasi ambito essa
venga praticata — in fisica e in economia, in biologia e in storiografia, in
chimica come nella critica testuale — si risolve in tentativi di soluzione di
problemi, tramite la proposta di ipotesi o teorie da sottoporre ai più severi
controlli al fine di vedere se esse sono false. Cerchiamo, insomma, di
falsificare, dimostrare false le nostre congetture per sostituirle, se ci
riusciamo, con teorie migliori, vale a dire più ricche di contenuto esplicativo
e previsivo. Ciò nella consapevolezza che, per motivi logici, non ci è
possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria: anche la teoria
meglio consolidata resta sempre sotto assedio.
La realtà è che evitare l'errore
è un ideale meschino; se ci confrontiamo con problemi difficili è facile che
sbaglieremo; conseguentemente, razionale non è un uomo che voglia avere
ragione, ma è piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori
e da quelli altrui. Ancora Popper: l'errore commesso, individuato ed eliminato
è il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della
nostra ignoranza. Dunque, nello sviluppo della ricerca scientifica, non ogni
teoria vale l'altra e, di volta in volta, accettiamo quella teoria che ha
meglio resistito agli assalti della critica. Il fallibilismo, in breve, è la
via aurea che, in ambito scientifico, consente di evitare sia il dogmatismo sia
l'arbitrio soggettivistico.
Ora, la storia delle vicende
umane, come anche la realtà dei nostri giorni, ci mostra una Terra inzuppata di
sangue versato in nome di concezioni etiche legate a differenti prospettive
filosofiche e religiose. Partendo dall'esperienza, ripete Max Weber con John
Stuart Mill, si giunge al politeismo dei valori. E con ciò siamo nel mezzo
delle questioni connesse al relativismo etico. Certo, è falso sostenere che
tutte le etiche sono uguali. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è un
principio ben diverso da quello dove si grida «occhio per occhio dente per
dente», o da quello leninista per cui «la morale è in tutto e per tutto
soggetta agli interessi della lotta di classe del proletariato», talché «non
bisogna accarezzare la testa di nessuno: potrebbero morderti la mano. Bisogna
colpirli sulla testa senza pietà».
Dunque, tutte le etiche sono
diverse, ma ce n'è una migliore delle altre? C'è, insomma, un qualche principio
etico che, razionalmente fondato, possa valere erga omnes? Si tratta di
un'inevitabile domanda che, tuttavia, non pare possa avere una risposta
positiva. Simile risposta positiva non può darsi se vale quella che si chiama
«legge di Hume», la quale stabilisce l'impossibilità logica di dedurre asserti
prescrittivi da asserti descrittivi. È questa, per usare un'espressione di
Norberto Bobbio, una legge di morte per ogni tentativo di giustificazione
razionale di qualsiasi sistema etico. La scienza sa, l'etica valuta. Molto può
fare la ragione nell'etica, ma la cosa più importante che essa può fare in
ambito etico sta nel farci comprendere che l'etica non è scienza. Esistono
spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche: non esistono spiegazioni etiche.
Da tutta la scienza non è estraibile un grammo di morale. I princìpi etici si
fondano su scelte di coscienza e non sulla scienza. Pluralismo di valori,
dunque scelta; scelta, dunque libertà; libertà dunque responsabilità.
Inevitabile la scelta, perché inevitabile il relativismo inteso esattamente
quale esito della non fondabilità razionale di qualsiasi principio etico. In un
simile orizzonte la «legge di Hume» si configura come la base logica della
libertà di coscienza, mentre la presunzione di essere in possesso difundamenta
inconcusse del proprio sistema etico genera facilmente fondamentalisti
inquisitori, i quali si sentiranno divorati dallo zelo di imporre agli altri il
«Vero» e il «Bene», magari a costo di lacrime e sangue. È davvero difficile dar
torto a Hans Kelsen quando scrive che «il relativismo è quella concezione del
mondo che l'idea democratica suppone». E non va dimenticato che la società
aperta è aperta al maggior numero di idee e ideali diversi e magari
contrastanti, ma che è, appunto, aperta e non spalancata; essa, pena il suo
autodissolvimento, è chiusa a tutti gli intolleranti e ai violenti — animata,
come è, da quel decreto umanitario che stabilisce che «non c'è nessun uomo che
sia più importante di un altro uomo». Ma, e qui l'interrogativo si impone, che
cosa sarebbe questa nostra «cum-scientia» umanitaria, che cosa sarebbe in altri
termini l'Occidente senza il messaggio cristiano? E se da un punto di vista
fattuale appare inconsistente la posizione di quanti sostengono che del fiume
della nostra storia il cristianesimo sarebbe nulla più che un affluente
insignificante e non una sua poderosa sorgente, sorprende l'insistenza di tanti
intellettuali cattolici i quali pensano che sia la ragione, al di fuori della
Rivelazione, a stabilire, in maniera ultima e definitiva, ciò che è Bene e ciò
che è Male. Ma quale ragione, la ragione di chi, è in grado di approdare a
simili «assoluti terrestri»? Non è questa una forma di neopelagianesimo, dove
il messaggio di Cristo viene trasformato, dal più al meno, in uno strofinaccio
dell'argenteria di Aristotele, di Grozio o di Locke?
Blaise Pascal: «Nulla in base
alla pura ragione è di per sé giusto, tutto muta col tempo» — e tutti i nostri
«lumi» potranno solo farci conoscere che «noi non troveremo né la verità né il
bene». E, allora, Pascal è un «fideista» perché disprezza la ragione o è un
iper-razionalista consapevole dei limiti della ragione? E non è proprio in un
mondo lacerato dalla disperazione, alla ricerca di un bene o senso assoluto non
costruibile da mani umane, che risplende il messaggio cristiano nel suo più
profondo significato sia esistenziale che politico per la storia
dell'Occidente? D'altro canto, per il cristiano solo Dio è assoluto e tutto ciò
che è umano è storico, contestabile, perfettibile, insomma non assoluto. La
fede cristiana — che, essendo appunto fede, viene abbracciata e va
testimoniata, proposta e non imposta — libera l'uomo dall'idolatria, anche
dall'idolatria di una ragione concepita come Dea-Ragione. La ragione non è
quella prostituta di cui parla Lutero, ma non è nemmeno quella dea davanti alla
quale seguitano a inginocchiarsi i seguaci — laici e cattolici — delle svariate
forme di fondamentalismo razionalistico. La ragione, piuttosto, è una preziosa
lanterna, da tenere sempre accesa, necessaria per la correzione dei nostri
errori; indispensabile perché le nostre scelte vengano compiute a occhi aperti,
vale a dire con l'intelligenza delle loro conseguenze; e capace di scrutare
quei limiti di se stessa, senza la cui consapevolezza popoleremmo la Terra,
come insegnano tragiche esperienze del passato e del presente, di idoli
mostruosi assetati di sangue.
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