Non lasciare spazi indebiti all'ingiustizia - Le relazioni personali e
il compito del diritto di Francesco D’Agostino, 17 aprile 2012, http://www.avvenire.it/
Parlerò da giurista e quindi so
bene che il mio discorso verrà frainteso da tanti. Il diritto è poco conosciuto
e ancor meno amato (e la colpa di tutto questo va addebitata al novanta per
cento ai giuristi stessi). Il diritto però ha la sua funzione antropologica da
assolvere e deve assolverla sempre e comunque, pena il lasciar spazi indebiti
all’ingiustizia.
Bisogna quindi, almeno in certe
situazioni, e mantenendo il tono della voce il più pacato possibile, parlare di
diritto e secondo il diritto. È troppo importante farlo. Va accettato il
matrimonio omosessuale? Vanno accettate le convivenze omosessuali? Vanno
accettate, allargando il discorso, le convivenze di fatto? Vanno elevati a
ruoli pubblici persone ottime in sé, ma non in grado di gestire adeguatamente
quei ruoli? Il diritto dice di no: dice di no nel suo principio, anche se,
ormai sempre più spesso, dicono di sì le leggi positive di Stati che si
reputano "avanzati" (ricordiamoci sempre però quanto abbia sempre
pesato, nell’esperienza storica dell’umanità, le leggi ingiuste!). Perché il
diritto dice di no? Perché è freddo e non ha cuore, sostengono i suoi
avversari. Perché è formalista. Perché non bada all’amore sostanziale, quello
vero. Perché, invece di badare alla «qualità delle relazioni» si ferma alle
esteriorità burocratiche.
Non sono critiche da poco, se non
altro perché colgono nel segno. Colgono nel segno nel senso che queste critiche
descrivono correttamente la logica del diritto. Dopo averla correttamente
descritta, però, si dimostrano incapaci di coglierne il senso e quindi la
fraintendono. Il problema è questo e solo questo. Il diritto,
istituzionalizzando ruoli sociali, non lo fa per premiare i buoni, ma per
ottenere dall’istituzionalizzazione di quei ruoli frutti vantaggiosi per la
società civile e per il bene comune.
Il diritto riconosce il
matrimonio eterosessuale non per premiare l’amore coniugale e fedele degli
sposi (cioè la «qualità» della loro relazione), ma perché valuta il bene
sociale che segue a quel vincolo (la nascita della famiglia come garanzia per
l’ordine delle generazioni). Se il diritto dovesse davvero badare alla «qualità
delle relazioni» dovrebbe inevitabilmente farlo a tutto campo, riconoscendo da
una parte le relazioni «di qualità», ma misconoscendo dall’altra quelle che
tali non fossero. I risultati sarebbero devastanti. Un marito potrebbe
ripudiare la moglie, dichiarando semplicemente che non l’ama più. Un genitore
potrebbe disconoscere legalmente un figlio, sostenendo che è venuto meno il
rapporto affettivo tra loro. Un datore di lavoro potrebbe licenziare per
analoghi insindacabili motivi il dipendente. Il pubblico funzionario non
dovrebbe avere l’ autorità obiettiva conferitagli dal suo ruolo, ma solo quella
legata alle sue capacità relazionali. Un prete che ricevesse, in forme
canonicamente indiscutibili, una cura parrocchiale dovrebbe conquistarsi
l’affetto del suo gregge prima di poter essere legittimamente riconosciuto
parroco.
La qualità delle relazioni
interpersonali è umanamente preziosa e moralmente va posta al vertice
dell’esperienza umana. Le relazioni giuridiche occupano un posto molto più
basso. Giustificare però ruoli e relazioni istituzionali solo partendo dal
criterio della qualità delle relazioni è giuridicamente impossibile. Chi
desideri occupare un ruolo istituzionale, cioè riconosciuto dal diritto, sia
esso quello di coniuge, di sacerdote, di funzionario, di militare, di politico,
di presidente di un consiglio pastorale, ecc, deve dar prova di poter operare,
in quel ruolo, secondo le finalità che a quel ruolo sono assegnate dal diritto.
San Francesco, malgrado il suo
straordinario carisma spirituale e pastorale, non ascese al sacerdozio, né
pretese di ascendervi. Non avere un riconoscimento giuridico (di coniuge, di
prete, di laureato, ecc.) non toglie assolutamente nulla alla dignità della
persona cui quel riconoscimento è negato, se questa negazione consegue alla sua
obiettiva incapacità di adempiere alla funzioni di quel ruolo. È legittimo,
anzi, sospettare che ci sia qualcosa che non va, quando il desiderio (pur
comprensibile) di ottenere un titolo (come ad esempio il sacerdozio per le
donne o lo statuto di coniuge per un omosessuale) si trasforma in una pretesa
gridata ad alta voce e insofferente di qualsiasi opposizione, subito bollata
come ostile ai diritti umani. Non è così e i giuristi (quelli almeno che non si
lasciano incantare dalle deformazioni cui può andare incontro il diritto
positivo) non dovrebbero mai cessare di ricordarlo, pacatamente, ma anche senza
timidezze e ad alta voce.
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