Laicità: l’errore di Paolo Flores d’Arcais di Luigi Baldi, dottore di
ricerca in Filosofia, 1 aprile, 2012, http://www.uccronline.it
Di grande interesse risulta il
dibattito suscitato da un intervento del Card. Angelo Scola (“La presunta
laicità della politica”), pubblicato su “Repubblica” del 26/2/2012, stralcio di
una conferenza tenuta nello stesso giorno nella cattedrale Notre-Dame di
Parigi, e dalla lettera di risposta del Prof. Paolo Flores d’Arcais, pubblicata
sempre su “Repubblica” il 28/2/2012.
Scola parte dalla constatazione
di una crisi comunicativa epocale, dovuta all’incapacità dei diversi codici
universali secolarizzati di elaborare una piattaforma di valori comune agli
uomini. E’ la sfiducia nella possibilità stessa di una domanda fondata su un
logos, quindi, comunicabile e condivisibile da tutti gli uomini, in quanto
dotati di ragione. La sfiducia nel logos si traduce inevitabilmente nella
difficoltà di comunicare, negando il fondamento della democrazia, come ricerca
dialogica del bene comune della polis. Se ogni opinione è vera ne consegue che
la verità è un fatto privato: pubblico è solo lo spazio vuoto, il contenitore neutro.
La democrazia si risolve, allora, in una procedura di garanzia del “rispetto
delle regole” (innanzitutto quella della maggioranza), che implica la
neutralità dello spazio pubblico, ovverosia l’azzeramento di qualunque pretesa
di cercare il vero e il bene universale.
Per Scola, invece, la politica è
«l’ambito in cui tutti i “diversi” debbono avere la possibilità di contribuire
responsabilmente al bene comune della comunicazione», in quanto è «veramente
pubblico, e perciò sanamente laico, solo quello spazio che scommette sulla
libertà dei cittadini, credenti e non credenti, di mettersi nel gioco di una
“narrazione reciproca». Flores d’Arcais obbietta che la laicità della polis si
misura sull’assenza di ogni «riferimento religioso nello spazio pubblico»;,
ovverosia in «quel processo permanente di formazione dell´opinione pubblica e
deliberazione istituzionale, che mette capo alla promulgazione di una legge».
Il fatto è che per Scola il senso religioso è un fatto pubblico per definizione
e si radica in quell’esperienza di apertura trascendentale all’essere, che sta
alla base anche della filosofia, dell’arte, della scienza, in una parola
dell’uomo. L’uomo come persona è per natura “politico”, aperto alla relazione e
alla condivisione con gli altri, quindi alla ricerca in comune del bene della
polis. Il pubblico, da questo punto di vista, non è una zona franca rispetto
alla realizzazione di questa dinamica umana, ma è, al contrario, proprio il
luogo della sua attuazione, del farsi della sua storia: è un pieno, non un
vuoto. Laicità, dunque, significa apertura alla ricchezza dell’umano, non
chiusura in uno spazio autosufficiente e puro perché “bianco”. Il pubblico è
laico nella misura in cui pone le condizioni affinchè l’uomo possa svilupparsi
e attuare in pienezza le proprie potenzialità naturali di essere razionale e
relazionale.
La religione, quindi, ha una
dimensione pubblica perché il senso religioso costituisce storicamente il
principio ispiratore della cultura umana in tutte le sue espressioni. Possono
esistere stati atei ma non popoli senza una tradizione religiosa. Tenere conto
della tradizione religiosa del suo popolo è cosa ben diversa per uno stato da
imporre una religione ai cittadini o discriminare in virtù dell’appartenenza
religiosa. Non si può obiettare che lo stato deve essere neutro, altrimenti
discrimina necessariamente. Una neutralità di tal fatta è solo una finzione,
che nasconde semplicemente il tentativo scorretto e surrettizio di sostituire
la propria concezione a un’altra concorrente. Ciò che conta è il rispetto dei
diritti inviolabili della persona umana, tra i quali c’è proprio la libertà da
coercizioni nella ricerca della verità, cioè la libertà della volontà sulla
base del giudizio della coscienza, specialmente in materia religiosa. Flores
d’Arcais parte, invece, da una identificazione tra pubblico e privato, in cui
il primo si identifica con una sua dimensione fondamentale ma parziale, cioè lo
stato. In tale quadro tutti i soggetti diversi dallo stato perdono il carattere
di “pubblico” e divengono automaticamente privati, legittimati a esistere per
concessione dello stato, ma privati.
Proprio nel Cristianesimo, del
resto, è l’origine del concetto di laicità («il mio regno non è di questo
mondo», Gv 18, 36). La tentazione di arrivare alla Resurrezione senza passare
attraverso la Croce è all’origine di ogni fondamentalismo religioso. L’alterità
irriducibile di Dio rispetto al mondo impedisce di confondere il Regno di Dio
con qualunque realizzazione umana, per quanto cristiana sia (“Gaudium et Spes”
39). Se Dio è trascendente e creatore, il potere non può essere divinizzato e
la politica appartiene all’ambito delle realtà penultime, “cause seconde” (San
Tommaso) o “fini infravalenti” (Maritain).
Qualunque concezione immanentistica che collochi la causa prima nel
mondo, giungendo, perciò, a divinizzarlo, finisce, invece, per assolutizzare e
divinizzare anche il potere politico. Ne sono esempi il totalitarismo, vera
religione secolare, e lo stesso fondamentalismo religioso, che, al di là dell’apparente
rivendicazione anti-moderna del primato di Dio sul “secolo”, assomiglia a una
forma molto moderna di politicizzazione del religioso. Il cristiano si muove
nell’ambito delle realtà penultime con la capacità di argomentazione fondata
sulla propria natura di creatura razionale, consapevole che il senso del
penultimo sta nelle realtà ultime. La Chiesa è competente su “come si va in
cielo”, non certamente su “come va il cielo”: il fatto è che a volte chi è
competente in quest’ultimo ambito pretende, sulla base del suo metodo di
argomentazione, di parlare del primo. Essa, quindi, non può tacere quando le
questioni tecniche coinvolgono problemi morali e toccano la verità rivelata su
Dio e sull’uomo; né si vede perché dovrebbe farlo nel legittimo e “laico”
confronto delle idee.
Non sono mancati tra i cristiani
in diversi momenti storici cedimenti alla tentazione di scambiare il Regno di
Cristo con il potere temporale e ciò può ancora accadere. E’, tuttavia, segno
di profonda intolleranza e arroganza pretendere di imporre ai credenti di
separare la propria fede dalla vita; sarebbe come pretendere da un ateo di
separare il proprio ateismo dall’impegno pubblico. L’uomo non è fatto a moduli
o a compartimenti stagni, in modo tale che se ne possa frantumare l’unità di
vita, scindendo irrimediabilmente la vita privata da quella pubblica. In un
contesto di trasformazioni ed emergenze epocali come il nostro è più che mai
indispensabile il contributo di tutte le energie alla soluzione di problemi
planetari e inediti. In tale quadro un’idea di separazione tra religione e vita
pubblica, che cerchi di chiudere la fede nel privato delle coscienze appare
molto limitante. Dalle parole del prof. Flores d’Arcais, invece, risulta con
evidenza il timore che il contributo delle religioni alle determinazioni della
vita pubblica possa portare all’imposizione di una certa concezione o modello
di vita personale e sociale sugli altri. L’equivoco di fondo è dato dalla
confusione tra verità e sua imposizione. Il Cristiano, proprio perché sa che il
regno di Dio non è di questo mondo e che lo stile di Gesù Cristo non conosce
forzature e imposizioni, non può imporre niente a nessuno: quando lo ha fatto e
lo fa ha sbagliato e sbaglia, confondendo errore ed errante e dimenticando,
altresì, che «omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est»(San
Tommaso).
Lo stesso Dottore Angelico, pur
non usando i termini “laicità” e “laicismo”, afferma che la legge umana e legge
morale naturale non si sovrappongono, per cui la prima non necessariamente
proibisce tutto ciò che proibisce la seconda. Essa non può imporre la virtù
perché, così facendo, imporrebbe un livello di tensione etica, che molti non
sarebbero in grado di sostenere; per questo si limita a vietare soltanto i
comportamenti più gravi, che mettono direttamente in pericolo la conservazione
della comunità umana (per es. omicidi, furti e simili) (S.Th. I-II, 96, 2). La
vera intolleranza sembra essere oggi quella di chi pretende, con le armi
spuntate di una ragione cartesiano-spinoziana, di ergersi a giudice
inflessibile e inappellabile dei contenuti della rivelazione cristiana, tanto
da decretarne l’ostracismo dalla comunità civile. Il prof. Flores d’Arcais
sottolinea che mai un credente può utilizzare Dio nel processo di formazione di
una legge, per se stessa generale, cioè valida per tutti. Tale affermazione, però,
presuppone una concezione della fede forse propria della riforma, certamente
del fondamentalismo religioso o del “New Age”, irriducibilmente separata dalla
cultura e non “fides quaerens intellectum”, secondo la tradizione cattolica. La
fede cristiana è una delle fonti ispiratrici primarie della nostra cultura e
questo vale anche per le categorie concettuali di coloro che la contestano:
l’idea di laicità che professano, i diritti umani e la libertà di cui parlano,
le università in cui molti insegnano, l’assistenza e gli ospedali dove anche
loro si curano, i centri storici medioevali, le cattedrali e l’arte che anche
loro, si spera, ammirano, la stessa Costituzione italiana vigente
(relativamente al contributo, peraltro determinante, dei cattolici) sono tutti
prodotti della cultura ispirata da una fede pensata e vissuta, come non può non
essere la fede cristiana e che non avremmo se i credenti l’avessero riservata
al privato.
Il fatto è che spesso
un’argomentazione razionale, se proposta da un credente, ancora più se
ecclesiastico, è valutata in modo pregiudizialmente negativo, mentre egli è
chiamato, proprio in virtù della propria fede, a “rendere ragione della
speranza” (1Pt 3, 15). L’argomentazione, allora, non è e non può essere il “Dio
lo vuole” o il “perché sì!”, ma la dignità dell’uomo, creato come imago dei,
senza che questo significhi per il credente aver «già messo tra parentesi la
sua fede e il suo vissuto religioso, … cioè già esiliato il suo Dio dalla sfera
pubblica». E’ la scelta tra un’idea di famiglia come soggetto meritevole di
tutela dal punto di vista pubblico, per la sua rilevanza in relazione
all’educazione dell’uomo e del cittadino, oppure come soggetto privato, in cui
è prioritaria la salvaguardia degli interessi degli individui che la
compongono. Si deve intendere per famiglia una “società naturale fondata sul
matrimonio” (art. 29 Cost.), cioè una formazione sociale “originaria”, proprio
perchè precedente lo Stato e, perciò, dotata di diritti ad esso preesistenti,
come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) oppure una
qualunque comunità tra persone fondata sul sentimento reciproco e sul desiderio
di stare insieme, come soggetto privato che prescinde da ogni distinzione di
sesso? E’ l’opzione tra un’idea di uomo come individuo, dotato di diritti e
interessi tendenzialmente illimitati perché fondati sulla sua costituzione
biologica, in cui il desiderio e la volontà assumono valore normativo e la cui
libertà significa assenza di legami e l’idea di uomo come persona, singolo
irripetibile e originario, ma naturalmente relazionale e sociale, la cui libertà è responsabilità
verso l’altro, mai assoluta ma sempre relativa a un ordine di valori oggettivo,
basato sulla dignità della persona umana. E’ la scelta tra il riconoscimento
che a partire dal concepimento, con la formazione del corredo genetico, si è in
presenza di un essere umano, che va trattato come persona e il primato della
volontà individuale e collettiva, che sceglie di determinare convenzionalmente
il momento dell’emergere di una vita umana degna di tutela. E’ l’opzione tra
disponibilità e indisponibilità della vita umana. E’ di questo che si discute.
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