Se non accettiamo la morte degli embrioni in laboratorio di Luca
Doninelli, martedì 03 aprile 2012, http://www.ilgiornale.it/
La medicina incoraggia la nostra
volontà di potenza, per questo l'errore è inammissibile. Ma l'infallibilità è
solo un'illusione e il caso del San Filippo Neri di Roma lo dimostra
Periodicamente, nel corso della
storia, si è cercato di rispondere alla domanda cruciale: che cos'è l'uomo?
È successo nei momenti di
maggiore urgenza culturale («ché perder tempo a chi più sa più spiace», dice
Dante). Se lo sono chiesto nell'antica Grecia. Se lo sono chiesto i Padri e i
Dottori della Chiesa, così come i Rinascimentali nel Cinquecento, o gli
Illuministi nel Settecento.
La stessa domanda risuona in
questi giorni, in modo disturbante, senza lasciare il tempo alla pacata
riflessione, dopo l'incidente al centro di procreazione dell'ospedale San
Filippo Neri di Roma, dove sono andati distrutti, tra gli altri, novantaquattro
embrioni.
L'evento ha suscitato un notevole
scandalo non solo nel mondo cattolico, ma un po' dappertutto, per ragioni
diverse. Tutti conosciamo le posizioni dei cattolici, sulle quali possiamo
concordare o meno, ma che hanno in ogni caso il pregio della chiarezza, e forse
proprio per questo risultano per molti così irritanti.
C’è però chi, da tutt'altra
parte, ha dichiarato inammissibile l'episodio, e per ragioni ben diverse da
quelle cattoliche. Ed è su queste che proponiamo al lettore una breve
riflessione, perché qualcosa da imparare c'è, e non di poca importanza.
Lo scandalo di cui parliamo non
riguarda, infatti, i novantaquattro embrioni e i centotrenta ovociti distrutti.
Riguarda uno solo dei novantaquattro embrioni: quello che doveva essere
impiantato proprio in questi giorni nell'utero di una donna.
In altre parole: novantaquattro
embrioni sono andati «distrutti», ma uno solo di essi è stato «ucciso», perché
quello soltanto era destinato a diventare un essere umano. La donna che lo
attendeva ha, come si dice, perso il bambino. Se l'espressione non fosse del
tutto idiota, potremmo parlare di aborto extrauterino, o qualcosa di simile.
Lo scandalo è soprattutto questo.
Sappiamo infatti che dopo due anni gli embrioni vengono distrutti, come si
dice, di default, quindi non c'è niente di speciale nell'incidente in sé.
Spiacevole, questo sì, ma niente di più. Molti di quegli embrioni erano
riserve, come nel calcio: se la gravidanza va male, ce n'è un altro pronto. Ma
si sa che, quasi certamente, non sarebbero mai stati impiantati.
Erano novantaquattro embrioni,
tutti uguali, tutti incapsulati nella loro esistenza subpolare. Le loro
cellule, ferme. I loro neuroni (se ce n'erano), immobili. Per la debole
saggezza umana, nessuno di loro attendeva niente.
Ma l'uomo - sotto le sembianze di
un padre, di una madre e di uno staff medico - aveva deciso che uno di questi
novantaquattro, perfettamente uguale, sarebbe diventato un uomo a sua volta:
uno di noi. Sarebbe cresciuto, avrebbe studiato e lavorato, forse avrebbe avuto
figli senza bisogno della fecondazione artificiale.
Tutto giusto e legittimo. Ma,
come si vede, qui una risposta all'antico interrogativo, «che cos'è l'uomo?»
emerge a chiare lettere: l'uomo è quello che noi decidiamo che sia. La
differenza tra «uomo» e «non-uomo» non sta in un fattore oggettivo, ma in una
decisione che qualcuno ha il potere di prendere.
Potremmo dire, più semplicemente:
l'uomo è un'entità mentale, una pura astrazione, la cui consistenza è definita
dal progetto che ha su di esso. Altrimenti, è letteralmente niente.
Nessuno aveva in mente, infatti,
di trasformare novantatré di quegli embrioni, mentre per il novantaquattresimo
esisteva un progetto, o meglio: un programma. È il programma che conferisce
all'embrione lo statuto di «uomo». Ma l'uomo come realtà ontologica non esiste
(con tutte le conseguenze che questo comporta sul piano del Diritto ecc.).
Che gli strumenti di
conservazione non abbiano funzionato è, pertanto, imperdonabile per tutti
coloro che ritengono che compiti della scienza e della medicina siano quelli di
avvicinare il più possibile i margini della natura da una parte e della nostra
volontà di potenza dall’altra.
L’errore, l’imprevisto, il
malfunzionamento sono già intollerabili in natura, poiché fastidiosamente ci
rinviano a cose alle quali non abbiamo voglia di pensare, come la morte e la
fragilità di cui siamo fatti. Figurarsi se si verificano in quegli strumenti
che dovrebbero tenere queste cose sotto controllo.
Ecco il problema. Questo, più
della finanza, è il nodo culturale su cui probabilmente si deciderà il futuro
della nostra civiltà.
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