lunedì 2 aprile 2012


CULTURA - GIUSTIZIA/ 1. Quando l'attacco al matrimonio viene dal "sentimento" dei giudici di Guido Piffer, Tomaso Emilio Epidendio, Giuseppe Ondei, lunedì 19 marzo 2012, http://www.ilsussidiario.net

La recente sentenza della Cassazione sulle coppie gay (n. 4184) è solo l’ultimo di una serie di casi che legittimano qualche domanda sui criteri che ispirano i giudici a proposito di famiglia e di matrimonio. Un problema in realtà molto più ampio, sul quale gli autori cercano di far luce. Primo di tre articoli.

Una delle maggiori difficoltà che oggi si registrano è quella di rendersi conto della reale dimensione dei fenomeni in cui si è coinvolti, delle “logiche” che danno loro forma e dell’enorme incidenza che queste hanno sulla vita delle persone. Chi desidera formarsi una propria convinzione, libera e responsabile, su un certo argomento, deve affrontare questa sfida e provare a stanare le posizioni implicite, o quelle acriticamente assunte come incontestabili, oppure frutto di un condizionamento ideologico, di cui tutti gli interlocutori sono più o meno consapevolmente affetti. Cercheremo di farlo a proposito del dibattito sulle nuove forme di famiglia e di matrimonio, dibattito che coinvolge la concezione del diritto e della giustizia attualmente dominante.
Ogni epoca ha il suo “spirito del tempo”, un modo di affrontare i problemi, un punto di vista privilegiato sulle cose e le questioni quotidiane, che risulta a tal punto diffuso in un determinato periodo storico, da rendere difficile perfino averne consapevolezza e sul quale, quindi, risulta difficile addirittura avviare una discussione o una riflessione critica.
In questo momento, nel diritto, lo spirito del tempo si incarna in quello che potremmo definire un “approccio sentimentale” alla giustizia, un approccio, cioè, in base al quale si privilegiano le soluzioni alle questioni giuridiche che sentiamo emotivamente come giuste: la decisione si legittima più per la sua conformità a tale asserito senso di giustizia che per il rigore dell’argomentazione, il rispetto della norma, la coerenza con i presupposti e le argomentazioni sulle quale si fondano altre decisioni, con il grave rischio dell’adozione di decisione contraddittorie da caso a caso.
Non di rado tale approccio “sentimentale” trova terreno fertile nella sempre più massiccia adozione di un metodo – che in parte richiama la tradizione casistica di common law, ispirante le corti sovranazionali con le quale sempre più di frequente il giudice nazionale è in contatto – in base al quale si privilegia l’attenzione al caso concreto e agli “effetti” della decisione, a discapito di preoccupazioni di ordine sistematico o di “presupposti”.
Un approccio sentimentale al diritto e alla giustizia può affermarsi perché sussistono determinate condizioni che favoriscono un’accresciuta discrezionalità giudiziaria: crisi dello Stato e del formalismo giuridico (specie nelle declinazioni che definiscono il giuridico secondo forme di validità meramente procedurale); molteplicità delle fonti normative; ipertrofia della produzione legislativa e crisi del principio di gerarchia delle fonti come criterio principe di soluzione dei conflitti tra norme; crisi della dogmatica giuridica con conseguente scarsa attenzione ai problemi di sistematizzazione generale e concentrazione, invece, sulla soluzione dei singoli casi concreti; estrema velocità e continuità dei mutamenti normativi; esigenza di integrazione in ordinamenti sovranazionali o sistemi a sovranità condivisa la cui struttura normativa, per garantire la propria compatibilità con i differenti sistemi nazionali, deve essere meno rigidamente prescrittiva e più duttile, ponendosi quindi come diritto per principi la concretizzazione dei quali finisce per essere riservata alle giurisprudenze nazionali, il cui conseguente più ampio margine di apprezzamento discrezionale progressivamente restringe l’importanza del diritto di fonte politico-parlamentare.
Per fare un esempio, è significativa in proposito la casistica offerta dalla giurisprudenza nazionale in punto di risarcimento dei danni: partendo dalla declamazione di principi generali contenuti in carte costituzionali e internazionali si è giunti non di rado al riconoscimento di diritti che ben potremmo chiamare “immaginari” (diritto alla vita felice, alla serenità, ecc.), la lesione dei quali fonda tuttavia la condanna ad un risarcimento dei danni.
L’irrompere del “sentimento di giustizia” nel diritto non è privo di buone ragioni e deve certamente riconoscersi come esso nasca da una reazione agli eccessi del formalismo giuridico e alla caduta dell’illusione della pretesa neutralità delle operazioni interpretative e di applicazione della legge.
Tuttavia, sono evidenti i rischi di un simile “sentimentalismo”, quello cioè di rendere le decisioni sempre più imprevedibili e contraddittorie, in quanto legate alla soggettiva e mutevole emozionalità delle singole persone, fino ad arrivare ad uno scontro acceso tra posizioni irriducibili in quanto non fondate su ragioni, ma appunto su sentimenti, che si provano e non si argomentano, ciò che potrebbe portare (se non ha già portato) ad una crisi dell’attività di motivazione dei provvedimenti.
Uno degli indici più evidenti, infatti, di un diritto fondato sul sentimento è l’inversione del procedimento di decisione: non si arriva, invero, alla soluzione della questione giuridica attraverso l’analisi comparativa degli argomenti a favore e contro le possibili opzioni prospettate o prospettabili nel caso sottoposto ad esame, ma si sceglie la soluzione che si “sente” come giusta e si passa, poi, a cercare gli argomenti a sostegno, spesso senza neppure preoccuparsi della loro coerenza, come avvenuto, ad esempio, nelle diverse decisioni sul cd. fine vita, tutte accomunate dall’identità del metodo sentimentale, pur nella differenza delle conclusioni raggiunte.
In questo modo si creano conflitti molto aspri su questioni delicatissime che, da un lato, risultano ancora più accesi per la passionalità del loro fondamento e che, dall’altro, non risultano in alcun modo componibili, perché gli argomenti spesi nelle discussioni in realtà non supportano le conclusioni, ma sono solo reperiti “a posteriori” con funzione retorico-persuasiva, cosicché la loro confutazione non incide sul reale e sottaciuto fondamento sentimentale delle stesse.
Dopo questa lunga, ma necessaria premessa, senza la quale non sarebbe possibile comprendere la reale dimensione del fenomeno, occultata da retoriche, ideologismi e pigre abitudini culturali, si può tornare al tema del matrimonio e della famiglia, proprio perché esso costituisce un buon esempio del modo in cui un approccio sentimentale alle relative questioni giuridiche possa operare e di quali conseguenze possa avere.

(1 – continua)

GIUSTIZIA/ Ecco perché i giudici "benedicono" i matrimoni gay di Guido Piffer, Tomaso Emilio Epidendio, Giuseppe Ondei, lunedì 26 marzo 2012

Continua l’analisi degli autori sui criteri che ispirano i giudici a proposito di famiglia e di matrimonio. Secondo di tre articoli. Leggi qui il primo articolo.

Nel campo del matrimonio, gli aspetti giuridici si intrecciano in maniera quasi inestricabile con la natura degli interessi coinvolti e con le continue trasformazioni del substrato sociale sul quale vengono ad incidere costringendo il legislatore prima, e l’interprete poi, ad un continuo confronto con sollecitazioni e valutazioni di tipo extragiuridico: un terreno dunque fertilissimo per un approccio “sentimentale” al diritto, perché sull’applicazione della norma ricade inevitabilmente l’influenza del bagaglio culturale ed emotivo di colui che quella norma deve applicare.
E ciò per un triplice ordine di motivazioni: a) in questa materia il substrato normativo è costituito da interessi che appartengono alla sfera emozionale piuttosto che, come accade in altri campi del diritto civile, da interessi di consistenza squisitamente patrimoniale; b) le stesse disposizioni normative si presentano spesso formulate in maniera volutamente generica o utilizzando clausole generali, che lasciano ampi spazi alla sensibilità dell’interprete; c) molto spesso accade che l’interprete abbia vissuto in prima persona esperienze – come quelle che coinvolgono i rapporti interpersonali – di cui ben conosce la portata emozionale prima ancora che giuridica.
Tale complessa dimensione di carattere “metagiuridico”, cioè culturale, emozionale e di esperienza personale, sottesa a questa materia chiama in causa “logiche” diverse relative al matrimonio, che sono anche riscontrabili nella sua stessa evoluzione storica e che hanno delle concretissime implicazioni nel campo giuridico.
Il punto, come si è già detto nella prima parte dell’articolo, è quello di far emergere queste logiche, sotterranee e profonde, talvolta abilmente sottaciute, talaltra semplicemente inespresse perché inconsapevolmente adottate, perché si è inconsciamente intrappolati in esse dalle nostre abitudini culturali, dalla nostra pigrizia, dall’effetto della comunicazione di massa.
Si tratta, cioè, di far emergere tutte le implicazioni sottese alla logica adottata, per vedere se vi siano contraddizioni o incoerenze rispetto alle soluzioni proposte (così da svelarne il carattere ideologico e meramente retorico, l’inganno o la fallacia argomentativa); si tratta di verificare se alcune di tali implicazioni contrastino con i dati di fatto (così da svelarne l’impraticabilità giuridica); si tratta di considerare, alla luce di tutte le implicazioni sottese alla logica che vi opera, se la regolazione del fenomeno, il valore in essa espresso e salvaguardato, la sua dimensione etica o morale, abbiano i caratteri necessari per assumere rilevanza giuridica, cioè per entrare  nella sfera del diritto. A quest’ultimo proposito non va mai dimenticato che quanto un fenomeno entra nella sfera del diritto entra molto concretamente nelle aule dei tribunali, dove le pretese riconosciute dalla legge possono essere attuate coattivamente, attraverso la “forza” messa a disposizione dall’ordinamento, e non restano dunque nella sfera privata e intima della persone.
Vediamo quindi di chiarire con l’esempio quanto stiamo dicendo, e facciamolo proprio con riferimento al matrimonio, cerchiamo cioè di investigare quale siano le logiche sottostanti a questo fenomeno. Proviamo ad effettuare questo tentativo, come tale imperfetto e perfettibile, ma che intende essere una proposta di metodo che eviti quello scontro di valori che, pur nel carattere opposto delle soluzioni proposte dalle diverse parti, è accomunato da una modalità sterile e pericolosa di approccio ai fenomeni.
Proviamo dunque a proporre una prima individuazione delle logiche sottostanti al matrimonio. Una prima logica è quella “istintuale”: con essa il fondamento del matrimonio è visto nel soddisfacimento di un bisogno del corpo, in cui il partner è lo strumento di tale soddisfazione e in cui centrale diventa perciò la disposizione del “diritto sul corpo”. Lo strumento giuridico funzionale a tale logica è, pertanto, quello che serve a regolare reciprocamente gli interessi a ciò sottesi e, in cui, nel modo più vario a seconda delle diverse culture, si individua una parte che cede e una parte che acquista il diritto sul corpo: non stupisce quindi che il mezzo giuridico privilegiato per la regolazione reciproca di interessi di varie parti sia quello del “contratto”. In tale prospettiva non è essenziale che siano i coniugi ad esprimere il consenso, essendo essenziale invece che tale consenso sia espresso da chi ha il potere di disporre dei beni, quindi, in alcuni passaggi storici dalle famiglie.
Questa prospettiva non riconosce la dignità dell’altro, visto appunto come strumento di soddisfacimento di un bisogno (che, si badi bene, può avere e spesso ha avuto anche finalità procreativa non solo di semplice soddisfazione sessuale), e non come persona. Seppure così forte e così distante dal nostro modo di sentire, questa è la logica che trova una delle proprie realizzazioni tipiche, anche se non esclusive o necessarie, nello schema giuridico del matrimonio-contratto, rispetto alla quale essenziale è solo la regolazione consensuale di prestazioni viste come corrispettive e nel quale la stessa differenza sessuale non ha alcun ruolo determinante (vario potendo essere il bisogno sessuale da soddisfare), così come il fine procreativo o meno e la stessa possibilità di rescissione del rapporto (al quale si può attribuire una più o meno forte grado di resistenza).
La seconda logica – quella prevalente nell’attuale passaggio storico – è quella “sentimentale”, in cui il fondamento del matrimonio è visto nel sentimento che deve legare i coniugi: in quest’ottica l’altro è recuperato nella sua dignità di persona che come tale risulta indisponibile e deve necessariamente essere rispettata. Il mezzo giuridico tipico (ancorché non necessario od esclusivo) è quello del riconoscimento di diritti fondamentali, o comunque indisponibili, e il pregio di una simile logica è, certamente, quello di aver recuperato il concetto di reciproco rispetto nel rapporto di coppia, di uguaglianza nella diversità. Naturalmente, all’interno di questa logica nulla vieta che il sentimento possa legare persone dello stesso sesso e, spesso con suggestivi salti retorici, meritevoli di più analitico approfondimento, non a caso si può manifestare (e si sta manifestando) una tendenza a vedere il riconoscimento di unioni tra persone dello stesso sesso come un’implicazione del rispetto di ritenuti diritti fondamentali della persona.
L’aspetto maggiormente significativo di questa prospettiva – e quello che ha già statisticamente manifestato tutta la propria rilevanza – è quello per il quale, se il fondamento (anche giuridico) del matrimonio è visto nel sentimento, la variabilità e mutevolezza nel tempo del medesimo comporta inevitabilmente la possibilità di scioglimento dal legame ogni qual volta il suo fondamento sentimentale venga meno. 
Ecco che la positiva esigenza del riconoscimento della reciproca dignità dei coniugi sottesa alla presa di campo della logica sentimentale del matrimonio, finisce poi per avere implicazioni che incidono in modo pesante sulla stabilità delle famiglie. In altre parole, alla solidarietà che associa i diritti ai doveri viene sostituita una visione che assolutizza il diritto alla felicità individuale, senza disponibilità ad integrarlo con il bene degli altri componenti del gruppo familiare: cessato il sentimento, non solo viene meno il fondamento sostanziale del matrimonio, ma il rapporto da strumento di realizzazione della propria felicità si muta nel suo opposto, diviene cioè causa della propria infelicità dalla quale ci si deve dunque liberare al più presto.
Inoltre, occorre interrogarsi su quanto dicevamo in un precedente intervento, cioè sul pericolo di trasformare qualsiasi nostro personalissimo desiderio in un diritto fondamentale, ricordando che tale riconoscimento non è affatto innocuo e vantaggioso per tutti, perché comporta l’insorgenza di obblighi e la possibilità coattiva di farli rispettare: occorre cioè investigare i caratteri che una unione deve avere per aspirare ad ottenere rilevanza giuridica, ad assurgere addirittura a diritto fondamentale e bisogna chiedersi se davvero tutte le unioni possano avere queste caratteristiche.
Con la terza logica di matrimonio come promessa-dono si effettua un diverso salto di qualità che merita un approfondimento a parte.

(2 – continua)

GIUSTIZIA/ Cari giudici, la famiglia non è una "Spa", di Guido Piffer, Tomaso Emilio Epidendio, Giuseppe Ondei, lunedì 2 aprile 2012

Continua l’analisi degli autori sui criteri che ispirano i giudici a proposito di famiglia e di matrimonio. Ultimo di tre articoli. Leggi qui il primo e il secondo articolo.

La terza logica è quella della “promessa”: in essa il fondamento del matrimonio è visto in un impegno che entrambi i coniugi unilateralmente (e non per vincolo contrattuale)  si scambiano liberamente di fronte alla società per istituire una comunità destinata fisiologicamente a durare. In questa logica si muta completamente prospettiva rispetto alle due precedenti: qui il centro, l’obiettivo ultimo, il fondamento non è più il proprio “io”, la propria “felicità”, ma il dono totale di sé, l’impegno e la dedizione per l’“altro”, si abbandona quell’etica della felicità nella quale non trova spazio e non si comprende più il sacrificio.   
In questa differente prospettiva, in questa logica della promessa e in questa etica del dono, si dovrebbe rileggere ed apprezzare il ricorso a quello schema giuridico che, proprio per la sua distanza dall’etica e dal sentire comune, dal diffuso “spirito del tempo”, suona così poco attraente e che pure risulta gravido della più nobile espressione dell’amore coniugale, si dovrebbere cioè rileggere con luce nuova il concetto di “istituzione”. La concezione del matrimonio e della famiglia come istituzione implica – come è stato bene evidenziato da autorevole dottrina – l’idea di un corpo sociale che non può essere ridotto ad un mero prodotto della volontà quale puro effetto di norme giuridiche, ma implica un quid di oggettivo e indisponibile, un qualcosa che – per così dire – le parti non creano da sè, ma che è esterno ad esse, che esse riconoscono ed accettano. 
Resta certo essenziale il consenso degli sposi quale espressione della loro libera volontà di stabilire il vincolo matrimoniale, ma il suo oggetto è connotato da una accentuata indisponibilità ed è proprio questo che vale a distinguere la prospettiva istituzionale dalla prospettiva contrattualistica, la quale è invece caratterizzata dal primato della volontà come fonte del diritto soggettivo e da un potere di disposizione ad esso inerente. In altri termini, nel matrimonio come istituzione i coniugi volontariamente aderiscono ad un istituto il cui contenuto è sottratto alla loro disponibilità, nel matrimonio come contratto esso è invece visto essenzialmente come strumento di regolazione di contrapposti interessi in una logica di scambio.
Solo rileggendo alla luce della logica della promessa-dono la fondamentale categoria giuridica della “istituzione” – senza cioè chiedere al  concetto giuridico di offrire le soluzioni o spiegare la logica sottostante, ma chiedendo invece a quest’ultima di illuminarci sul migliore uso del concetto e dello strumento giuridico – appare possibile impostare correttamente una serie di problemi attuali legati al matrimonio e alla famiglia, innanzitutto svelando come talune posizioni polemiche contro la famiglia riguardino più che la forma particolare, storicamente condizionata, dell’istituto, l’idea stessa della famiglia come istituzione, cioè come realtà tutelata dall’ordinamento, fonte di diritti e di doveri legati ad uno status e coinvolgente interessi primari, che quindi non può essere piegata ad una mera logica contrattualistica o di diritto soggettivo individuale.
E ancora: solo la consapevolezza che l’istituzione della famiglia fondata sul matrimonio ha nel nostro ordinamento una forma particolare, modellata da principi e valori primari di rilievo costituzionale, rende possibile la convinta e razionalmente argomentata salvaguardia dei suoi tratti essenziali, di fronte a proposte di ricondurre sotto l’“etichetta matrimonio” istituti completamente diversi o forme di convivenza che si pretende siano variamente riconosciute dall’ordinamento.
Da quanto detto emerge dunque la conferma che i termini e i concetti giuridici non sono per nulla “neutri” ed intercambiabili a piacimento, perché – se si vuole evitare la “frode delle etichette” – ognuno di essi sottende una precisa concezione, una scelta di valore: il matrimonio in una prospettiva strettamente volontaristica non è il matrimonio in una prospettiva istituzionale (pur nella possibile mutevolezza delle forme di tale istituzione). Solo avendo chiaro questo è possibile passare alla valutazione di quali sono le ragioni che possono giustificare le scelte (e le loro conseguenze) che inevitabilmente l’ordinamento giuridico compie in questa materia quando ne detta una regolamentazione.
E ancora: è solo a partire da questa consapevolezza che chi intenda difendere le ragioni di una traduzione culturale millenaria, può esplicitare una vera consapevolezza critica dei principi e dei valori implicati nella famiglia come istituzione giuridica fondata sul matrimonio, che la diversifica non solo rispetto a prospettive meramente contrattualistiche, ma anche rispetto a diverse forme istituzionali del matrimonio. Soprattutto si richiede una consapevolezza di cosa significa il riconoscimento della giuridicità del legame matrimoniale, vale a dire qual è il significato e la ragion d’essere del riconoscimento di una dimensione necessariamente vincolante di fronte alla intera comunità.
Ne consegue che uno dei compiti più urgenti dei giuristi nel campo del diritto di famiglia è la ricostruzione del concetto di famiglia come istituzione non nel senso di istituzione gerarchica, ma di istituzione paritaria fondata sulla solidarietà, dove il consenso matrimoniale non abbia più una valenza contrattualistica, bensì abbia il valore di foedus ossia evochi l’idea di alleanza in cui gli sposi mettono in comunione non singoli fatti, ma tutta la vita, dove i diritti inviolabili convivano con i doveri di solidarietà dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, dove nell’unità della famiglia il fine di ciascuno dei membri diventa lo sviluppo e la felicità dell’altro e, in questo senso, come già aveva osservato il grande giurista Luigi Mengoni, i diritti dei membri della famiglia si universalizzano, giusta la formula dell’art. 29 Cost., come diritti della famiglia.
L’operazione non è certo facile in una situazione in cui è stata smarrita l’idea di una realtà oggettiva conoscibile ed in cui domina l’emozionalismo ed il soggettivismo irrazionale. Tuttavia, in questa situazione il giurista si trova avvantaggiato, perché la necessità di rigore metodologico e di chiarezza concettuale lo costringe a quel continuo recupero di una razionalità, di una coerenza logica e argomentativa, di un approfondimento della conoscenza, che sono agli antipodi del clima culturale dominante.


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