IDEE/ Che cos’hanno in comune i "gaudenti" e i salutisti? Di Salvatore
Abbruzzese, giovedì 5 aprile 2012, http://www.ilsussidiario.net/
Un recente articolo di Slavoj
Žižek uscito sul Corriere ha il pregio di portare all’estremo due principi
orientativi dell’ethos contemporaneo. Si tratta delle scelte “salutiste” da un
lato e del diritto del singolo all’autonomia totale della propria esistenza
dall’altro. Due ethos contrapposti dove al controllo totale di ogni
atteggiamento che possa danneggiare la salute della persona nel primo caso (e
si è con ciò molto vicini a quell’etica dell’amor proprio teorizzata da
Fernando Savater vent’anni fa) si contrappone quello della libertà più completa
di ciascuno, purché non leda i diritti degli altri.
Spinti ciascuno al proprio
limite, come Žižek dimostra, questi due modelli di vita danno vita a situazioni
paradossali.
Ciò che è tuttavia emblematico di
un tale processo risiede nella comune base antropologica che sorregge tanto la
figura del “salutista” quanto quella del “gaudente senza limiti”. In entrambi i
casi infatti il soggetto è visto come artefice, libero e indipendente, della
propria esistenza.
Nel primo caso questi deve solo
liberarsi dalle pulsioni incontrollate a favore di un recupero degli “equilibri
della persona”, del “consumo salutare”, del “governo dei propri desideri”. Nel
secondo invece si tratta di liberarsi dalle convenzioni sociali, dalle regole
e, più in generale, da tutte le costruzioni sociali, destrutturando e
ristrutturando in modo personale ogni angolo della propria esistenza.
Tutto questo conduce a vite
paradossali, dove il vero problema non è tanto quello costituito
dall’estensione illimitata delle regole di comportamento o, all’opposto, dalla
soppressione radicale di ogni regola morale, quanto quello del credere in una
promessa di potenziale realizzazione del proprio sé.
Tanto in un caso che nell’altro
si ritiene infatti che una realizzazione piena sia possibile, a condizione di
correggere i propri difetti e riequilibrare i propri desideri (nel primo caso)
oppure di sbarazzarsi di tutte le convenzioni e di tutti i divieti (nel
secondo). Si tratta quindi di credere nella tesi, politicamente corretta, di un
soggetto che è potenzialmente padrone della propria esistenza, a condizione di
saper dominare sé stesso oppure di avere ragione di tutte le convenzioni
sociali che vede intorno a sé.
Questi modi di pensare sono
diventati veri e propri luoghi comuni, modelli di ragionamento diffuso al quale
non è possibile contravvenire se non opponendovi un principio avverso,
altrettanto radicale.
Si tratta allora di affermare,
almeno in una prospettiva relazionale, come l’uomo non sia mai realmente indipendente
dai legami che lo definiscono e quindi, in questo senso, non sia mai libero.
L’uomo non è mai libero in quanto
ha bisogno degli altri per vivere e questo bisogno non risiede
nell’obbligatorietà dei rapporti materiali, ma anche e soprattutto nella
indispensabilità di quegli immateriali. L’uomo non ha bisogno tanto di
scambiare beni per la propria sopravvivenza (uno scambio tanto necessario
quanto irrilevante sotto l’aspetto relazionale) quanto ha invece bisogno di
scambiare doni, ha cioè bisogno di donarsi e di ricevere i segni del
riconoscimento, della stima e dell’affetto degli altri.
Ma c’è di più, proprio perché
mortale e quindi inevitabilmente carente, ha bisogno di un tipo particolare di
dono, quello del perdono per le miserie (i limiti) che continua a portarsi
dentro.
Rileggendo la frase di Sartre
“l’inferno sono gli altri” (espressa ad epilogo della pièce Intimità a porte
chiuse) si può dire che, per questo maestro dell’esistenzialismo, l’inferno
sono gli altri quando ci riportano a ciò che siamo, svelando fino in fondo i
nostri limiti, privandoci della maschera con la quale ci nascondiamo agli altri
e, soprattutto, a noi stessi.
Ma l’intera analisi di Sartre si
regge solo ammettendo, accanto alla coscienza realistica di ciò che noi realmente
siamo e gli altri svelano, l’idea (o la convinzione triste) che Dio,
semplicemente e drammaticamente, non esista, non ci sia.
È solo a condizione che Dio non
esista che i nostri limiti ci appaiono insopportabili e gli altri che ce li
svelano, costituiscano un vero e proprio inferno. Per un essere che si è
prefisso la realizzazione piena del proprio sé, ogni limite gli appare
insopportabile, ogni cedimento intollerabile, ogni fallimento insostenibile:
chiunque ce lo ricordi ci rende la vita impossibile, infernale.
L’inferno è lo scandalo dei
nostri limiti svelati, agli altri come a noi stessi. Limiti che ci appaiono
tanto più insopportabili quanto più ci manca tanto la presa d’atto realistica
della nostra natura imperfetta, quanto la certezza di essere amati con tutte le
nostre imperfezioni da un altro.
L’inferno è quindi la vita
smascherata nei propri limiti umani senza la speranza di essere amati così come
siamo. E poiché il perdono è il miracolo dell’amore, e questo non ha tracce nel
tessuto biologico e psichico dell’uomo, ma rinvia ad un Altro che ce lo pone
nel cuore, l’inferno è la vita senza la possibilità, né la speranza dello
sguardo e dell’accoglienza di quest’Altro, senza il dono del suo perdono.
È questa cecità nel vedere
l’Altro, un Altro che consapevolmente ci accoglie con tutti i nostri limiti, e
che ci ama, a costituire l’unico ed autentico Inferno.
La cifra esatta della vita non risiede allora
tanto nel superamento delle proprie imperfezioni (una ginnastica quotidiana
nella quale è bene impegnarci ogni giorno, ma dalla quale usciamo sempre
perdenti) né nel liberarci dalle convenzioni, quanto nel riuscire a riconoscere
l’amore del quale siamo oggetto e, proprio in grazia di questo, riprendere
vita.
Si tratta di una missione
irrealistica se non si riconosce la grazia di qualcuno che ci ha amati per
primo, senza condizioni. E ci è accanto.
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