IL CASO/ La Corte di Strasburgo "smentisce" l'Italia e boccia
le adozioni gay di Monica Ravasi, giovedì 5 aprile 2012, http://www.ilsussidiario.net
Mentre in Italia si sta
accendendo il dibattito, anche politico, sulla possibilità di riconoscere il
matrimonio omosessuale, sulla scorta della sentenza della Cassazione 8184
del 15 marzo 2012 che ha inteso recepire
in motivazione alcuni principi - a suo dire - provenienti dalla Corte di
Strasburgo, è bene evidenziare anche
altri segnali provenienti dall’Europa.
Il 15 marzo 2012, infatti, lo
stesso giorno di pubblicazione della discussa sentenza della Cassazione
italiana, la Corte di Strasburgo ha
adottato una interessante decisione – significativamente ignorata dalla gran
parte dei media italiani - escludendo la natura discriminatoria
dell’ordinamento dello Stato francese in punto accesso all’adozione.
La Corte europea ha respinto il
ricorso di due donne omosessuali che accusavano la Francia di aver violato
l’articolo 8 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, in materia di rispetto della vita
privata e familiare, e dell’articolo 14 della stessa Convenzione, che vieta
ogni forma di discriminazione, anche con riguardo all’orientamento sessuale.
Il caso di cui la Corte dei
diritti dell’uomo di Strasburgo è stata investita riguardava due signore
conviventi da lungo tempo. Dopo la nascita di una bambina mediante il ricorso,
da parte di una delle donne, alla procreazione assistita in Belgio, ove è
consentito il ricorso al donatore anonimo, l’altra donna aveva chiesto di
adottare la bambina anche in ragione dell’unione registrata tra le due sin dal
2002 (PACS). A seguito del diniego delle Autorità francesi le due signore
avevano deciso di rivolgersi alla Corte europea.
La Corte ha evidenziato come in
Francia l’adozione da parte del coniuge del figlio avuto all’altro coniuge,
genitore naturale, fosse riservato solo alle coppie unite da matrimonio. Negli
altri casi, quali i PACS, l’adozione particolare non poteva essere concessa se
non previa declaratoria di decadenza
della potestà genitoriale.
La Corte di Strasburgo ha
ritenuto che, quindi, non sussisteva alcuna discriminazione fondata
sull’orientamento sessuale delle richiedenti, dal momento che in Francia anche alle coppie eterosessuali non veniva concessa tale particolare forma di
adozione, avente per presupposto, invece, il rapporto di coniugio.
Perché il caso è interessante?
La Corte di Giustizia Europea,
nell’ambito dell’interpretazione della Convenzione Europea dei Diritti
dell’uomo e delle Libertà Fondamentali, in tema di discriminazione e rispetto
della vita privata e famigliare, ha stabilito che “il divieto di consentire
l’adozione ad una coppia dello stesso sesso non è contrario alla Convenzione
europea”.
In primis la valutazione che la
Corte EDU dà del divieto di fecondazione eterologa per le coppie omosessuali si
riferisce alla legislazione francese che stabilisce come requisito essenziale
per poter accedere alla fecondazione eterologa il fatto che la coppia sia
formata da un uomo e una donna. Tale principio deriva dal fatto che la
legislazione francese attribuisce alla fecondazione eterologa il ruolo di cura
contro l’infertilità delle coppie (per le coppie omosessuali, invece,
l’impossibilità procreativa deriva dalla natura stessa dei soggetti).
La corte pronunciandosi ha
ribadito un principio fondamentale, stabilendo che gli Stati membri hanno ampi
margini di discrezionalità (c.d. margine di apprezzamento) nel definire i
contenuti della vita familiare delle coppie gay e di quelle sposate, e che
pertanto non esiste un diritto a che lo status giuridico basato su un accordo
di convivenza sia sovrapponibile a quello del matrimonio. Inoltre ha ricordato
che gli Stati aderenti alla Convenzione sono liberi di definire cosa sia il
matrimonio e, ancor più, mantengono la loro piena autonomia e sovranità nel
prevedere che il matrimonio sia il vincolo che unisce solamente coppie
eterosessuali. Gli Stati sono altresì liberi di prevedere diritti differenti
tra coppie sposate e coppie dello stesso sesso che non possono contrarre
matrimonio, senza che ciò comporti discriminazione alcuna né violazione del
rispetto della vita privata.
Nel decidere i giudici di
Strasburgo non hanno ignorato le differenze esistenti tra i Paesi che hanno
ratificato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (basti pensare che dei 47 Paesi aderenti alla Convenzione solo 6
riconoscono il matrimonio tra omosessuali; altri paesi hanno optato per forme
diverse di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso), e
proprio a partire dalle differenze esistenti hanno ritenuto di escludere
l’esistenza di un obbligo per i Paesi aderenti di prevedere diritti per coppie
dello stesso sesso analoghi a quelli delle coppie sposate.
Del resto, già nel caso austriaco
Schalk e Kopf la Corte EDU aveva
ribadito che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che
possono differire molto da una società all’altra. E, perciò, l’opinione delle
autorità nazionali va rispettata in quanto esse, essendo più vicine al
substrato sociale, sono certamente in grado di valutare e rispondere alle
esigenze della società stessa. In tale occasione Strasburgo aveva avuto anche
occasione di precisare che l’Art. 12, che riconosce il diritto al matrimonio,
si riferisce a persone di sesso diverso.
Ancora una volta, quindi, la
Corte si è dimostrata realista nel rifiutare di attribuire lo stigma
discriminatorio alla scelta di un popolo che, pur comportando la limitazione di
“diritti” pretesi da minoranze sociali, si fonda su “ragioni di particolare
serietà”: touchè!
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