MEDICINA E MORALE | Sulla manipolazione del linguaggio - LE NUOVE PAROLE
DELLA MEDICINA, Editoriale pubblicato su Medicina e Morale 2011/6: 967-972, di
Antonio G. Spagnolo, Professore Ordinario di Medicina Legale e delle
Assicurazioni, Direttore dell'Istituto di Bioetica Facoltà di Medicina e
Chirurgia "A. Gemelli", Roma, Newsletter di Scienza & Vita n. 55,
Marzo 2012
Nel corso di un recente incontro tra il
direttore generale e il personale medico di una grande struttura ospedaliera, mentre veniva
illustrato il piano industriale di
rientro finalizzato a verificare la qualità
delle prestazioni e a raggiungere il riequilibrio
dei conti dei servizi sanitari, è stato esplicitamente
richiamato che i posti letto dell’ospedale
rappresentavano la “capacità produttiva”
di quella struttura: visite, analisi diagnostiche,
terapie e interventi chirurgici costituivano la produttività del lavoro degli operatori sanitari. Ma è stato richiamato anche, come
negli ultimi vent’anni il settore
sanitario sia l’unico settore economico
che non ha conseguito alcun guadagno in termini
di produttività, benché in termini di crescita del settore, per qualità e occupazione, non
sia stato di meno di altri (KOCHER R,
SAHNI NR. Rethinking Health Care Labor.NEJM. 2011; 365: 1370). È stato perciò
evidenziato che per conseguire un
risultato positivo in termini di “produzione” bisogna o aumentare le
prestazioni (in particolare interventi
chirurgici) o cercare di contenere i
costi, magari favorendolo con meccanismi
di “gratificazione economica” dei medici, per raggiungere l’obiettivo del guadagno in termini di produttività. Ripensavo a quanto diverso
era quel linguaggio rispetto a quello
che abbiamo imparato nei nostri primi
anni di formazione nella facoltà di medicina.
Anche allora, indubbiamente, chi intraprendeva
gli studi medici doveva acquisire un linguaggio
nuovo rispetto a quello comunemente usato
in famiglia e dalla gente comune: abbiamo imparato che l’arrossamento era un eritema, il
gonfiore una tumefazione e le punture
una terapia parenterale. È stato come
imparare una lingua straniera, al cui
apprendimento dovevamo dedicare molte
ore, al fine di utilizzare un linguaggio scientifico e condiviso dalla comunità
medica. Oggi
ci si trova
ancora in medicina
di fronte alla necessità
di imparare nuovi termini che in realtà sono
molto familiari in altri contesti: i pazienti non sono più pazienti, ma piuttosto “clienti” o
“consumatori”. I medici e gli infermieri sono “provider” o “fornitori” di servizi. Questi descrittori
sono ormai ampiamente adottati nei mass
media, nelle riviste mediche e nelle
riunioni di programmazione e di discussione
sui piani industriali e di rientro delle aziende sanitarie. Eppure quei termini non
sono sinonimi: la parola “paziente”
deriva da patiens, che significa
sofferente o portatore di una afflizione; dottore viene da docere, nel senso di insegnare
al sofferente come stare bene e come
gestire la propria salute; e infermiere
esprime in modo chiaro il ruolo di chi
assiste gli infermi per i bisogni che essi non sono in grado di soddisfare da soli data la
loro malattia. Termini che sono stati
usati per più di tre secoli nella
medicina e che hanno un ben preciso significato
circa il ruolo e gli obiettivi delle professioni
sanitarie. Che cosa abbia determinato il crescente
utilizzo di questo nuovo vocabolario in
medicina se lo domandano Hartzband e
Groopman in un bell’articolo sul New
England Journal of Medicine (NEJM)di
qualche mese fa (HARTZBAND P, GROOPMAN J. The New Language of Medicine. NEJM.
2011; 365: 1372. 7). Essi rilevano che essendo nel bel mezzo di una crisi economica,
gli sforzi per riformare il sistema sanitario si sono concentrati soprattutto sul controllo dei
costi ai vari livelli. A tal fine, molti
economisti e responsabili delle
politiche sanitarie hanno già da tempo proposto che la cura del paziente dovrebbe essere
industrializzata e standardizzata. Ospedali e cliniche dovrebbe funzionare come moderne fabbriche e termini “arcaici”, come
medico, infermiere e paziente dovrebbe quindi essere sostituiti con una terminologia che si
inserisca in questo nuovo ordine di
idee. Ma queste
parole che abbiamo sempre utilizzato per spiegare i
diversi ruoli in ambito sanitario non
sono facilmente intercambiabili con i
nuovi termini: al contrario esse sono
significativamente molto potenti nel determinare
precise aspettative circa i ruoli, e rimandano
a precisi comportamenti da parte di chi ha
scelto una professione sanitaria. Perciò questo cambiamento nel linguaggio della medicina ha conseguenze molto pesanti e deleterie sulle
relazioni tra medici, infermieri, o
qualsiasi altro professionista sanitario,
ed i pazienti di cui si prendono cura. Queste
relazioni sono ora delineate fondamentalmente in termini di una transazione
commerciale: il consumatore o
cliente è il compratore, e il “provider” è il fornitore o venditore di un servizio sanitario. Non c’è dubbio che vi sia una
sensibile implicazione finanziaria
dell’assistenza clinica ma questa è solo
una parte marginale di tutta l’assistenza
e comunque per chi è malato questa è la parte
meno rilevante. I termini “consumatore” e “fornitore di servizi” sono molto riduttivi e
non tengono conto della dimensione
spirituale, psicologica e umana della
relazione tra professionisti e pazienti,
relazione che rende la medicina una “vocazione”,
nella quale la dedizione e l’altruismo dovrebbero
mettere in secondo piano il guadagno personale
in termini di gratificazione economica o di produttività aziendale. Il termine “fornitore
di servizi”, poi, è talmente e forse
anche deliberatamente generico, che non permette di designare in modo specifico il ruolo o il tipo
di competenza di ciascun professionista.
Ogni medico, infermiere, fisioterapista,
ecc., si è formato ed ha acquisito delle
competenze specifiche che non possono
essere incluse nel termine generico di “fornitore”
che non rimanda affatto ad una professionalità. Non emerge dal termine alcun
riferimento al ruolo di medico come un
maestro che ha speciali conoscenze per
aiutare il paziente, a capire le ragioni della sua malattia e le possibili modalità di
porvi rimedio. Non viene reso alcun
onore al lavoro dell’infermiere che con
le sue autonome e specifiche competenze
nell’ambito dell’assistenza rende possibile,
in stretta collaborazione con il medico, una guarigione efficace. Al contrario, il termine
generico “fornitore” suggerisce che i
medici e gli infermieri e tutti gli
altri professionisti medici siano intercambiabili. “Fornitore” suggerisce anche
che l’assistenza sia fondamentalmente
una merce preconfezionata su uno
scaffale che è venduta al “consumatore”,
piuttosto che qualcosa di personalizzato
e dinamico, realizzato da professionisti
qualificati, su misura del singolo paziente.
Sembra che tutto l’incontro clinico sia guidato
esclusivamente dall’obiettivo di produttività di fronte al quale il cliente o il consumatore
si pone con sospetto (“compratore stai attento!”, sembra essere l’atteggiamento di fondo) cosa che
difficilmente si concilia con un’atmosfera di fiducia così centrale e fondamentale nel rapporto tra il
medico o l’infermiere e il paziente. Se
ci pensiamo bene, che cos’altro sono le
frequenti denunce dei pazienti nei confronti
dei professionisti sanitari che, per definizione,
in base al loro ruolo di fornitori di servizi,
non potranno fare altro che gli interessi personali o dell’azienda e che non coincidono con quelli dei loro pazienti? Ridurre la medicina all’economia rende una beffa il legame tra
terapeuta e malati. Per secoli, i medici
che si sono mostrati attaccati al denaro
sono stati pubblicamente sbeffeggiati in
romanzi e opere teatrali in quanto avevano
tradito la loro vocazione. E adesso dovremmo celebrare il medico e la sanità
che intendono massimizzare i profitti
vendendo servizi ai pazienti
-“consumatori”? I pazienti non sono consumatori,
tuonava Paul Krugman dalla colonne del
New York Times del 21 Aprile scorso, e trova che tutto ciò è nauseante e che la prevalenza di
questo tipo di
linguaggio sia il
segno di qualcosa
che è andato distorto non solo in questo ambito ma
più in generale nell’ambito dei valori
della nostra società. Ma questo
movimento verso l’industrializzazione e la standardizzazione di tutta la medicina (e non
solo ai fini del miglioramento
dell’assistenza) ha profondamente inciso
anche su alcuni altri termini che sono
stati fondamentali per la nostra formazione medica: scompare il concetto di “giudizio clinico”
sostituito da “pratica basata
sull’evidenza scientifica”. Ma
l’evidenza non è qualcosa di nuovo, in
tutta la nostra formazione medica da più di trent’anni si è sempre fatto riferimento ai
dati scientifici per confermare la pratica clinica. Si parlava dei risultati dei diversi protocolli
di ricerca nelle conferenze, e se ne
discuteva nei congressi, ma è stato
proprio l’esercizio del giudizio clinico che ha permesso la valutazione di quei dati e
l’applicazione dei risultati degli studi
ad ogni singolo paziente, è ciò era
vista come l’espressione massima della pratica professionale. Ora gli esperti di politica
sanitaria e anche gli stessi medici
sostengono che l’assistenza clinica
dovrebbe essere essenzialmente una questione
di attuazione di linee-guida predefinite in una fabbrica di progetti, preparate da
esperti, contenute in manuali operativi.
Solo a queste lineeguida viene attribuito il carattere di scientificità e oggettività, mente il vecchio caro giudizio
clinico è descritto come soggettivo,
inaffidabile e non scientifico. C’è
evidentemente un errore di fondo in questa
concezione: infatti, mentre i dati di
per sé sono obiettivi, misurabili e
quantizzabili, la loro applicazione
nella pratica clinica da parte degli esperti,
che su tali dati hanno formulato le loro lineeguida, non lo è. E anzi talora
risulta “inconcepibile” che qualcuno
“osi” discostarsi dalle linee-guida anche
se ottiene nella pratica clinica risultati “evidenti”. Lo sanno bene alcuni nostri
ricercatori che, nel presentare per la
pubblicazione una loro ricerca ad una
nota rivista internazionale ad elevato Impact
Factor, si sono sentiti rispondere dall’Editore che l’articolo non veniva accettato solo
perché riguardava una ricerca sui pazienti maschi infertili che secondo i parametri seminali previsti
dalle lineeguida dell’OMS dovevano essere avviati alla fecondazione in vitro, mentre i nostri
ricercatori hanno potuto rilevare una
significativa fertilità spontanea in
questi soggetti che avevo osato non adeguarsi
alle linee-guida e ricorrere alla FIVET. Per fortuna un’altra rivista ha accettato la
pubblicazione che così potrà offrire un
elemento di riflessione a chi si occupa
di problemi di infertilità maschile (MILARDI D, GRANDE G, SACCHINI D ET AL. Male Fertility and Reduction in Semen Parameters: A Single Tertiary-Care
Center Experience. International Journal of Endocrinology 2012, Article
ID 649149, 6 pages, 2012. doi:10.1155/2012/649149). Questa constatazione, che
la pratica clinica basata sull’evidenza
codificata in linee-guida abbia un ineludibile
nucleo soggettivo, è avvalorata dal fatto che pur lavorando con gli stessi dati
scientifici, diversi gruppi di esperti
possono elaborare lineeguida diverse per condizioni comuni come l’ipertensione o l’ipercolesterolemia o l’uso
di test di screening per il cancro della prostata o della mammella. Definire i cut-off per iniziare o
meno un trattamento, sottoporre o meno
ad un test, soppesare il rapporto tra i
rischi e i benefici: riflettono tutti i valori
e le preferenze degli esperti che redigono le raccomandazioni. E questi valori e preferenze
sono tutti soggettivi, non scientifici,
ribadiscono Groopman e Hartzband. Ora,
quale impatto potrà avere questo nuovo
vocabolario sulla prossima generazione
di medici e infermieri? Ripensare i loro ruoli come quelli di “fornitori di sevizi” che
devono eseguire meramente indicazioni prefabbricate
diminuisce sicuramente la loro
professionalità e inevitabilmente anche
la loro responsabilità morale nei
confronti dei pazienti. Allo stesso modo, ripensare alla medicina in termini economici e
industriali difficilmente attirerà l’interesse di pensatori creativi e indipendenti con
competenze non solo nella scienza e la
biologia, ma anche con una attenzione
autentica agli aspetti umani della cura. Quando noi stessi siamo malati, vorremmo
che qualcuno si prendesse cura di noi
come persone non come clienti paganti e
che il trattamento venisse individualizzato
secondo i nostri valori e le nostre preferenze.
Perciò, nonostante l’ipocrita espressione “medicina centrata sul paziente” che pure continuiamo ad usare, da parte di chi spinge verso l’adozione del nuovo linguaggio in medicina, l’attenzione
è chiaramente spostata dal paziente al sistema
e ai suoi costi. Terminologie del mercato e
dell’industria possono essere
utili agli economisti ma non dobbiamo
permettere che questo vocabolario ridefinisca la professione medica. “Cliente”,
“consumatore”, “fornitore di servizi”, “produttività” sono parole che non devono entrare
nell’insegnamento medico e nella clinica
e i medici, gli infermieri e tutti gli
altri professionisti sanitari dovrebbero rifuggire l’uso di tali termini che sviliscono il
paziente oltre che loro stessi e
pericolosamente minano l’essenza della
medicina. Sin dal primo anno nel corso di Laurea in Medicina e chirurgia di molte
università è stato inserito il Corso
integrato di Scienze umane al fine di
contribuire a far emergere nello studente che inizia il suo corso di studi medici una visione
unitaria dello sviluppo delle conoscenze
biomediche e delle abilità
professionali, decisionali ed operative così che accanto alle competenze tecnico-scientifiche
egli acquisisca anche una sensibilità ai
problemi umani della persona sofferente,
delle capacità umane e comunicative e
una responsabilità etico-sociale nell’azione
di cura, che abbia certamente un occhio ai costi ma solo nella prospettiva di un equo
utilizzo delle risorse. E parametro di questa equità è il singolo paziente il cui interesse non può mai
essere subordinato all’interesse della
società.
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