lunedì 2 aprile 2012


MEDICINA E MORALE | Sulla manipolazione del linguaggio - LE NUOVE PAROLE DELLA MEDICINA, Editoriale pubblicato su Medicina e Morale 2011/6: 967-972, di Antonio G. Spagnolo, Professore Ordinario di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Direttore dell'Istituto di Bioetica Facoltà di Medicina e Chirurgia "A. Gemelli", Roma, Newsletter di Scienza & Vita n. 55, Marzo 2012

 Nel corso di un recente incontro tra il direttore  generale e il personale  medico di una grande  struttura ospedaliera, mentre veniva illustrato il  piano industriale di rientro finalizzato a verificare la  qualità delle prestazioni e a raggiungere il  riequilibrio dei conti dei servizi sanitari, è stato  esplicitamente richiamato che i posti letto  dell’ospedale rappresentavano la “capacità  produttiva” di quella struttura: visite, analisi  diagnostiche, terapie e interventi chirurgici costituivano la produttività  del lavoro degli operatori  sanitari. Ma è stato richiamato anche, come negli  ultimi vent’anni il settore sanitario sia l’unico settore  economico che non ha conseguito alcun guadagno in  termini di produttività, benché in termini di crescita  del settore, per qualità e occupazione, non sia stato  di meno di altri (KOCHER R, SAHNI NR. Rethinking Health Care Labor.NEJM. 2011; 365: 1370). È stato perciò evidenziato che per  conseguire un risultato  positivo in termini di  “produzione” bisogna o aumentare le prestazioni (in  particolare interventi chirurgici) o cercare di  contenere i costi, magari favorendolo con  meccanismi di “gratificazione economica” dei medici,  per raggiungere l’obiettivo  del guadagno in termini  di produttività. Ripensavo a quanto diverso era quel  linguaggio rispetto a quello che abbiamo imparato  nei nostri primi anni di formazione nella facoltà di  medicina. Anche allora, indubbiamente, chi  intraprendeva gli studi medici doveva acquisire un  linguaggio nuovo rispetto a quello comunemente  usato in famiglia e dalla gente comune: abbiamo  imparato che l’arrossamento era un eritema, il  gonfiore una tumefazione e le punture una terapia  parenterale. È stato come imparare una lingua  straniera, al cui apprendimento dovevamo dedicare  molte ore, al fine di utilizzare un linguaggio  scientifico e condiviso dalla comunità medica.   Oggi  ci  si  trova  ancora  in  medicina  di  fronte  alla  necessità di imparare nuovi termini che in realtà  sono molto familiari in altri contesti: i pazienti non  sono più pazienti, ma piuttosto “clienti” o “consumatori”. I medici e gli infermieri sono “provider” o  “fornitori” di servizi. Questi descrittori sono ormai  ampiamente adottati nei mass media, nelle riviste  mediche e nelle riunioni di programmazione e di  discussione sui piani industriali e di rientro delle  aziende sanitarie. Eppure quei termini non sono  sinonimi: la parola “paziente” deriva da patiens, che  significa sofferente o portatore di una afflizione;  dottore viene da docere, nel senso di insegnare al  sofferente come stare bene e come gestire la propria  salute; e infermiere esprime in modo chiaro il ruolo  di chi assiste gli infermi per i bisogni che essi non  sono in grado di soddisfare da soli data la loro  malattia. Termini che sono stati usati per più di tre  secoli nella medicina e che hanno un ben preciso  significato circa il ruolo e gli obiettivi delle  professioni sanitarie.   Che cosa abbia determinato il crescente utilizzo di  questo nuovo vocabolario in medicina se lo  domandano Hartzband e Groopman in un  bell’articolo sul New England Journal of Medicine  (NEJM)di qualche mese fa (HARTZBAND P, GROOPMAN J. The New Language of Medicine. NEJM. 2011; 365: 1372.  7). Essi rilevano che  essendo nel bel mezzo di una crisi economica, gli  sforzi per riformare il  sistema sanitario si sono  concentrati soprattutto sul controllo dei costi ai vari  livelli. A tal fine, molti economisti e responsabili  delle politiche sanitarie hanno già da tempo proposto  che la cura del paziente dovrebbe essere industrializzata e standardizzata.   Ospedali e cliniche dovrebbe funzionare come  moderne fabbriche e termini “arcaici”, come medico, infermiere e paziente dovrebbe quindi essere  sostituiti con una terminologia che si inserisca in  questo nuovo ordine di idee.    Ma  queste  parole  che  abbiamo sempre utilizzato per spiegare i diversi ruoli  in ambito sanitario non sono facilmente  intercambiabili con i nuovi termini: al contrario esse  sono significativamente molto potenti nel  determinare precise aspettative circa i ruoli, e  rimandano a precisi comportamenti da parte di chi  ha scelto una professione sanitaria. Perciò questo  cambiamento nel linguaggio della medicina ha  conseguenze molto pesanti e deleterie sulle relazioni  tra medici, infermieri, o qualsiasi altro professionista  sanitario, ed i pazienti di cui si prendono cura.  Queste relazioni sono ora delineate fondamentalmente in termini di una transazione commerciale:  il consumatore o cliente  è il compratore, e il  “provider” è il fornitore o  venditore di un servizio  sanitario. Non c’è dubbio che vi sia una sensibile  implicazione finanziaria dell’assistenza clinica ma  questa è solo una parte marginale di tutta  l’assistenza e comunque per chi è malato questa è la  parte meno rilevante. I termini “consumatore” e  “fornitore di servizi” sono molto riduttivi e non  tengono conto della dimensione spirituale,  psicologica e umana della relazione tra professionisti  e pazienti, relazione che rende la medicina una  “vocazione”, nella quale la dedizione e l’altruismo  dovrebbero mettere in secondo piano il guadagno  personale in termini di gratificazione economica o di  produttività aziendale. Il termine “fornitore di  servizi”, poi, è talmente e forse anche deliberatamente generico, che non permette di  designare in modo specifico il ruolo o il tipo di  competenza di ciascun professionista. Ogni medico,  infermiere, fisioterapista, ecc., si è formato ed ha  acquisito delle competenze specifiche che non  possono essere incluse nel termine generico di  “fornitore” che non rimanda affatto ad una professionalità. Non emerge dal termine alcun riferimento  al ruolo di medico come un maestro che ha speciali  conoscenze per aiutare il paziente, a capire le ragioni  della sua malattia e le possibili modalità di porvi  rimedio. Non viene reso alcun onore al lavoro  dell’infermiere che con le sue autonome e specifiche  competenze nell’ambito dell’assistenza rende  possibile, in stretta collaborazione con il medico, una  guarigione efficace. Al contrario, il termine generico  “fornitore” suggerisce che i medici e gli infermieri e  tutti gli altri professionisti medici siano intercambiabili. “Fornitore” suggerisce anche che  l’assistenza sia fondamentalmente una merce  preconfezionata su uno scaffale che è venduta al  “consumatore”, piuttosto che qualcosa di  personalizzato e dinamico, realizzato da  professionisti qualificati, su misura del singolo  paziente. Sembra che tutto l’incontro clinico sia  guidato esclusivamente dall’obiettivo di produttività  di fronte al quale il cliente o il consumatore si pone   con sospetto (“compratore  stai attento!”, sembra  essere l’atteggiamento di fondo) cosa che difficilmente si concilia con un’atmosfera di fiducia così  centrale e fondamentale nel rapporto tra il medico o  l’infermiere e il paziente. Se ci pensiamo bene, che  cos’altro sono le frequenti denunce dei pazienti nei  confronti dei professionisti sanitari che, per  definizione, in base al loro ruolo di fornitori di  servizi, non potranno fare altro che gli interessi  personali o dell’azienda e  che non coincidono con  quelli dei loro pazienti? Ridurre la medicina  all’economia rende una beffa il legame tra terapeuta  e malati. Per secoli, i medici che si sono mostrati  attaccati al denaro sono stati pubblicamente  sbeffeggiati in romanzi e opere teatrali in quanto  avevano tradito la loro vocazione. E adesso dovremmo celebrare il medico e la sanità che  intendono massimizzare i profitti vendendo servizi ai  pazienti -“consumatori”? I pazienti non sono  consumatori, tuonava Paul Krugman dalla colonne  del New York Times del 21 Aprile scorso, e trova che  tutto ciò è nauseante e che la prevalenza di questo  tipo  di  linguaggio  sia  il  segno  di  qualcosa  che  è  andato distorto non solo in questo ambito ma più in  generale nell’ambito dei valori della nostra società.  Ma questo movimento verso l’industrializzazione e la  standardizzazione di tutta la medicina (e non solo ai  fini del miglioramento dell’assistenza) ha  profondamente inciso anche su alcuni altri termini  che sono stati fondamentali per la nostra formazione  medica: scompare il concetto di “giudizio clinico”  sostituito da “pratica basata sull’evidenza  scientifica”. Ma l’evidenza non è qualcosa di nuovo,  in tutta la nostra formazione medica da più di  trent’anni si è sempre fatto riferimento ai dati  scientifici per confermare  la pratica clinica. Si  parlava dei risultati dei diversi protocolli di ricerca  nelle conferenze, e se ne discuteva nei congressi, ma  è stato proprio l’esercizio del giudizio clinico che ha  permesso la valutazione di quei dati e l’applicazione  dei risultati degli studi ad ogni singolo paziente, è ciò  era vista come l’espressione massima della pratica  professionale. Ora gli esperti di politica sanitaria e  anche gli stessi medici sostengono che l’assistenza  clinica dovrebbe essere essenzialmente una  questione di attuazione di linee-guida predefinite in  una fabbrica di progetti, preparate da esperti,  contenute in manuali operativi. Solo a queste lineeguida viene attribuito il carattere di scientificità e  oggettività, mente il vecchio caro giudizio clinico è  descritto come soggettivo, inaffidabile e non  scientifico. C’è evidentemente un errore di fondo in  questa concezione: infatti,  mentre i dati di per sé  sono obiettivi, misurabili e quantizzabili, la loro  applicazione nella pratica clinica da parte degli  esperti, che su tali dati hanno formulato le loro lineeguida, non lo è. E anzi talora risulta “inconcepibile”  che qualcuno “osi” discostarsi dalle linee-guida  anche se ottiene nella pratica clinica risultati  “evidenti”. Lo sanno bene alcuni nostri ricercatori  che, nel presentare per la pubblicazione una loro  ricerca ad una nota rivista internazionale ad elevato  Impact Factor, si sono sentiti rispondere dall’Editore  che l’articolo non veniva accettato solo perché  riguardava una ricerca sui  pazienti maschi infertili  che secondo i parametri seminali previsti dalle lineeguida dell’OMS dovevano essere avviati alla  fecondazione in vitro, mentre i nostri ricercatori  hanno potuto rilevare una significativa fertilità  spontanea in questi soggetti che avevo osato non  adeguarsi alle linee-guida e ricorrere alla FIVET. Per  fortuna un’altra rivista ha accettato la pubblicazione  che così potrà offrire un elemento di riflessione a chi  si occupa di problemi di infertilità maschile (MILARDI D, GRANDE G, SACCHINI  D ET AL. Male Fertility and Reduction in Semen Parameters: A Single Tertiary-Care Center Experience. International Journal of Endocrinology 2012, Article ID 649149, 6 pages, 2012. doi:10.1155/2012/649149). Questa constatazione, che la pratica clinica basata  sull’evidenza codificata in linee-guida abbia un  ineludibile nucleo soggettivo, è avvalorata dal fatto  che pur lavorando con gli stessi dati scientifici,  diversi gruppi di esperti possono elaborare lineeguida diverse per condizioni comuni come  l’ipertensione o l’ipercolesterolemia o l’uso di test di  screening per il cancro  della prostata o della  mammella. Definire i cut-off per iniziare o meno un  trattamento, sottoporre o meno ad un test, soppesare  il rapporto tra i rischi e i benefici: riflettono tutti i  valori e le preferenze degli esperti che redigono le  raccomandazioni. E questi valori e preferenze sono  tutti soggettivi, non scientifici, ribadiscono  Groopman e Hartzband. Ora, quale impatto potrà  avere questo nuovo vocabolario sulla prossima  generazione di medici e infermieri? Ripensare i loro  ruoli come quelli di “fornitori di sevizi” che devono  eseguire meramente indicazioni prefabbricate  diminuisce sicuramente la loro professionalità e  inevitabilmente anche la loro responsabilità morale  nei confronti dei pazienti. Allo stesso modo,  ripensare alla medicina in termini economici e  industriali difficilmente  attirerà l’interesse di  pensatori creativi e indipendenti con competenze  non solo nella scienza e la biologia, ma anche con  una attenzione autentica  agli aspetti umani della  cura. Quando noi stessi siamo malati, vorremmo che  qualcuno si prendesse cura di noi come persone non  come clienti paganti e che il trattamento venisse  individualizzato secondo i nostri valori e le nostre  preferenze. Perciò, nonostante l’ipocrita espressione  “medicina centrata sul paziente” che pure  continuiamo ad usare, da  parte di chi spinge verso  l’adozione del nuovo linguaggio in medicina, l’attenzione è chiaramente spostata dal paziente al  sistema e ai suoi costi. Terminologie del mercato e   dell’industria possono essere utili agli economisti ma  non dobbiamo permettere  che questo vocabolario  ridefinisca la professione medica. “Cliente”, “consumatore”, “fornitore di servizi”, “produttività” sono  parole che non devono entrare nell’insegnamento  medico e nella clinica e i medici, gli infermieri e tutti  gli altri professionisti sanitari dovrebbero rifuggire  l’uso di tali termini che sviliscono il paziente oltre  che loro stessi e pericolosamente minano l’essenza  della medicina. Sin dal primo anno nel corso di  Laurea in Medicina e chirurgia di molte università è  stato inserito il Corso integrato di Scienze umane al  fine di contribuire a far emergere nello studente che  inizia il suo corso di studi medici una visione unitaria  dello sviluppo delle conoscenze biomediche e delle  abilità professionali, decisionali ed operative così che  accanto alle competenze tecnico-scientifiche egli  acquisisca anche una sensibilità ai problemi umani  della persona sofferente, delle capacità umane e  comunicative e una responsabilità etico-sociale  nell’azione di cura, che abbia certamente un occhio ai  costi ma solo nella prospettiva di un equo utilizzo  delle risorse. E parametro  di questa equità è il  singolo paziente il cui interesse non può mai essere  subordinato all’interesse della società.     

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