26/10/2011 - UNO DEI PROTAGONISTI DEL FESTIVAL DELLA SCIENZA DI
GENOVA:"RAPPRESENTO UN SIMBOLO DELL’'NTEGRAZIONE UOMO-MACCHINA" - "Mi
presento, sono un cyborg" - Michael Chorost, programmatore informatico
"L’impianto cocleare lascerà il posto a sonde nanotech per leggere nel
pensiero degli altri" - La testimonianza di chi ha superato la sordità
grazie a un computer di Elisa Frisaldi, http://www3.lastampa.it
Prima sente il suono e poi ne
comprende il significato. E’ il doppio passaggio a cui deve abituarsi chi, dopo
aver perso l'udito, ricorre all'impianto cocleare. È ciò che è accaduto
all'americano Michael Chorost, programmatore informatico, ricercatore e autore
dei saggi sui rapporti uomo-macchina «Rebuilt» e «World Wide Mind», che perde
del tutto l'udito il 7 luglio di 10 anni fa, mentre è alla guida di una macchina
a noleggio per le strade di Reno, nel Nevada.
Nato già con un udito debole,
Michael aveva sempre portato apparecchi acustici che, amplificando i suoni,
riuscivano a fargli sentire alcuni frammenti delle frasi pronunciate dagli
altri. Poi, per ricostruire il senso del discorso, gli era essenziale aiutarsi
con la lettura del labiale. Ma è l’impianto cocleare che gli cambia la vita
come spiegherà oggi pomeriggio al Festival della Scienza di Genova -. A
differenza degli apparecchi acustici, infatti, la sua funzione è inviare
meccanicamente tutti i suoni al cervello, i quali, però, restano privi di
significato, se l’individuo non impara ad ascoltarli e ad associarli alle
parole che già conosce.
Ogni impianto è costituito da una
parte esterna e una interna: l’elaboratore del linguaggio, dietro l'orecchio,
ha un microfono che capta i suoni, li trasforma in segnali digitali e li invia
a una bobina che fa da tramite con la sezione interna. Superando la barriera
della cute, la bobina trasmette i segnali digitali a un ricevitore che li
trasforma in segnali elettrici e li invia, attraverso un filo porta-elettrodi,
alle fibre del nervo acustico nella coclea. I segnali generati da questa
stimolazione arrivano quindi ai centri uditivi del cervello, dove vengono
riconosciuti come suoni.
Dottor Chorost, che cosa si prova
ad affidare il proprio udito a un computer?
«Non avevo alternative. Volevo
uscire dall'isolamento. La difficoltà di adattarsi a un impianto cocleare è
paragonabile allo sforzo che facciamo da piccoli per imparare la nostra prima
lingua o, in seguito, per conoscere una lingua straniera. Per diverso tempo non
capisci nulla, le parole che si affollano la testa sono suoni privi di senso.
Solo dopo un anno la mia capacità uditiva era paragonabile a quella di quando
usavo l'apparecchio acustico. La famiglia e i miei amici sono stati un supporto
fondamentale: hanno rispettato con pazienza i miei tempi di recupero».
In che senso si sente un cyborg?
«Dal momento in cui il primo
impianto di coclea è entrato in funzione, il mio corpo è cambiato in modo
irreversibile. Ero l'esempio vivente della possibile integrazione
uomo-macchina. Mi sono dovuto abituare all' apparecchio esterno che, grazie a
un magnete, aderisce alla testa, e al fatto che ogni cosa suonava in modo
diverso rispetto a prima. Ma l'impianto non ha modificato la mia personalità,
la percezione che ho di me stesso. Ero e rimango Michael, l'uomo che adora le
lasagne e il suo gatto, Elvis, che odia gli insegnanti noiosi e che allora,
come poi è accaduto, sperava di innamorarsi».
Come ha imparato a decodificare
gli impulsi che gli elettrodi trasmettono al suo nervo acustico?
«Con gli audiolibri per bambini:
ascoltavo la lettura dei racconti e contemporaneamente seguivo il testo. Così,
un po' alla volta, ho imparato ad associare i suoni che sentivo alle parole di
cui già conoscevo il significato. Anche parlare con gli altri è stato un
esercizio di grande aiuto. Dovevo familiarizzare il più possibile con i nuovi
suoni e imparare a spostare l'attenzione dalle labbra del mio interlocutore ai
suoi occhi. Un vero sprone a vincere la mia timidezza».
E’ passato un quarantennio dai
primi impianti di coclea. Quanto è stata perfezionata la tecnica chirurgica?
«I progressi sono stati notevoli.
Basti pensare che l'installazione del mio primo impianto ha richiesto un'ora e
mezza mentre, a distanza di soli quattro anni, il secondo intervento si è
concluso dopo 41 minuti. Oggi questa tecnica chirurgica è diventata di routine,
ma ho notato che negli ultimi anni i progressi sono rallentati. I motivi
possono essere diversi, tra cui i costi necessari a migliorare la resa degli
apparecchi già in uso e il fatto che il settore è nelle mani di una sola
società. Ma non escludo che impianti cocleari basati sulle potenzialità degli
impulsi elettrici abbiano raggiunto il loro massimo sviluppo e sia quindi
arrivato il momento di spingersi oltre».
Ha qualche idea?
«Tra le tecnologie più
promettenti, già in fase di sperimentazione sui roditori, si parla di
optogenetica e nanotecnologie. L'optogenetica, una nuova branca della scienza
che combina ottica e genetica, ricorre a raggi laser in grado di attivare e
disattivare i singoli neuroni in base alla lunghezza d'onda della luce emessa.
In alternativa, una serie di nanosonde potrebbero risalire i capillari dalla
periferia del corpo fino al cervello e da lì regolare lo scambio di
informazioni tra neuroni. A ogni modo credo dovremo attendere alcuni decenni
prima che nuove tecnologie prendano il posto degli impianti cocleari».
In «World Wide Mind» lei immagina
un futuro in cui le tecnologie ci metteranno in contatto con le emozioni
altrui. Può spiegare?
«Credo che potremo avere la
possibilità di conoscere in tempo reale ciò che un amico o i nostri colleghi
vedono e sentono. Sarà la risposta della scienza al desiderio di relazioni più
profonde e al tentativo di raggiungere livelli d'intelligenza superiori. Così,
per esempio, un gruppo di poliziotti impegnati in un’operazione potrà coordinarsi
a distanza».
Non ha paura di scenari così
estremi?
«Il mio scopo è stimolare gli
altri a pensare come la tecnologia può favorire modalità d'interazione più
umane. Resto convinto del fatto che, per quanto sofisticata, nessuna tecnologia
potrà insegnarci a comunicare, ad ascoltare con attenzione o a entrare in
empatia. Questo è un compito che, per fortuna, spetta solo a noi».
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