I PARADOSSI DELLE POLITICHE PER LA FAMIGLIA di Stefano Zamagni
ZI11102014 - 20/10/2011
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Un paradosso, tra i tanti,
connota di sé la società italiana di questa fase storica. Mentre è ormai
ampiamente diffusa la consapevolezza del ruolo decisivo che la famiglia svolge
come soggetto sociale e come produttore di grandi esternalità positive a
beneficio dell’intera società, non procede con pari consapevolezza la messa in
cantiere di provvedimenti e di misure volti alla attuazione di una politica
della famiglia in sostituzione delle inadeguate politiche per la famiglia.
Detto in altro modo, non procedono allo stesso ritmo il riconoscimento da un
lato e la valorizzazione dall’altro che la politica “deve” alla famiglia per la
mole di funzioni sociali che nessuno Stato, nessun mercato, nessuna agenzia
pubblica possono surrogare in modo equivalente. Ad onor del vero, il divario
qui denunciato riguarda un po’ tutta l’Europa, anche se per l’Italia esso
assume un’ampiezza particolarmente preoccupante.
Infatti, se si leggono con
attenzione i documenti della strategia di Lisbona si scoprirà che, mentre si
parla ad abundantiam di capitale umano, di capitale sociale, di coesione
sociale, ecc. mai la famiglia in quanto tale viene chiamata in causa, come se
quest’ultima non fosse – lo vedremo tra breve – uno dei più decisivi generatori
dei primi. Ancora, l’Eurobarometro, nei suoi rapporti periodici, non perde
occasione per indicare che c’è un divario crescente tra il numero di figli che
gli europei desidererebbero mettere al mondo e quelli che effettivamente
nascono. Quanto a dire che la tanto sbandierata libertà di scelta dei coniugi
non trova il modo di essere tradotta in pratica: una sorta di razionamento
implicito nell’accesso alla generatività responsabile è all’opera nelle nostre
società. Nei Trattati Europei non si fa parola di una qualche politica
familiare europea, dato che l’intera materia viene lasciata agli Stati membri.
Il che finisce col determinare discrasie di ogni tipo, dal momento che la vita delle famiglie europee risulta
influenzata e deve fare i conti con non poche delle direttive comunitarie in
aree quali la protezione sociale; i tempi di lavoro; l’eguaglianza di genere;
la salute; l’educazione. In tutti questi ambiti, la famiglia diviene argomento
di interesse europeo come destinataria, diretta o indiretta, di regolamenti e
provvedimenti vari, ma invano l’osservatore attento troverebbe in tali
documenti una qualche definizione di famiglia.
Un paio di esempi possono servire ad illustrare
la portata di tale schizofrenia. Nel gennaio 1999, il Parlamento Europeo
approvò un circostanziato rapporto sulla protezione della famiglia e dei
bambini (Rapporto Marie Therese Hermange) in cui si avanzavano raccomandazioni
per il rispetto della libertà di scelta dei genitori in materia educativa; per
le pari opportunità per uomini e donne; per andare oltre l’approccio puramente
socio-economico fino ad allora dominante. Il rapporto è rimasto lettera morta.
Nel marzo 2004, sempre il Parlamento Europeo fece proprio il Rapporto Regina
Bastos sull’urgenza di procedere verso la conciliazione tra famiglia e lavoro,
richiamandosi agli obiettivi fissati nel summit di Barcellona del 2002:
eliminazione degli ostacoli alla partecipazione delle donne al mercato del
lavoro entro il 2010; assicurazione dei servizi di cura ai bambini di età
compresa tra i tre e i sei anni nella misura del 90% e dei nidi d’infanzia fino
al 33% del fabbisogno; flessibilizzazione dei tempi di lavoro e altro ancora.
Quasi nulla di tutto ciò si è trasformato in direttive di azione, anche se – va
riconosciuto – nel giugno 2007 la Commissione Europea ha approvato un
importante documento (Towards common principles of flexicurity) in cui si parla
esplicitamente della famiglia e dei suoi compiti e anche se nel marzo 2008 si è
arrivati finalmente alla “Revisione della strategia di Lisbona” in cui entra,
in maniera esplicita, la questione familiare. E così via.
Nel caso del nostro paese, questi
ritardi e queste incongruenze risultano ulteriormente amplificati e accentuati
rispetto a quanto accade altrove, come la Seconda Conferenza Nazionale della
Famiglia del novembre 2010 a Milano ha puntualmente messo in luce. Non
solamente, come si è visto nel capitolo 3, la spesa per i servizi alla famiglia
è scandalosamente bassa. (Basti un dato: se l’UE destina alla famiglia l’8%
circa della spesa sociale, l’Italia ne destina il 4,1%, corrispondente a poco più dell’1% del PIL). Quel che è più
grave è che le modalità con cui vengono combinate tra loro le politiche che
attribuiscono alla famiglia risorse di tempo (orari flessibili, congedi
parentali), risorse economiche (deduzioni e/o detrazioni; buoni per l’acquisto
dei servizi di cura) e servizi di cura diretti sono tali da determinare spesso
effetti perversi (1). E’ il “familismo di default” – come lo ha chiamato Chiara
Saraceno (2) - quello che per lungo tempo ha caratterizzato l’impianto del
welfare state italiano. Ad esempio, mai fino ad oggi è stata introdotta una
prestazione universalistica per le famiglie con figli allo scopo di sostenerle
economicamente. Lo strumento adottato – quello degli assegni familiari volti a
compensare per via assicurativa i carichi familiari dei lavoratori dipendenti –
essendo sottoposto alla prova dei mezzi non solamente non ha sortito l’effetto
desiderato (sostegno al reddito della famiglia) data la sua esiguità, ma ha
finito con lo scoraggiare il lavoro fuori casa delle donne.
Non c’è allora da sorprendersi se
il Rapporto 2008 del Global Gender Gap, promosso dal World Economic Forum, vede
l’Italia in 84a posizione su 128 paesi per quanto riguarda la partecipazione
femminile al mercato del lavoro (con una perdita di ben sette posizioni
rispetto al Rapporto precedente). E non c’è da stupirsi se il “Primo Rapporto
sulle politiche familiari” dell’OCSE (Parigi, 27 Aprile 2011) denuncia con
forza la situazione italiana per il modo in cui vengono lasciate al loro
destino le donne che cercano con fatica di conciliare i tempi di vita familiare
con i tempi di vita lavorativa. Il rischio sarà – viene evidenziato – che i
giovani che oggi hanno un’età compresa tra i venti e i trenta anni si vedranno
nell’impossibilità pratica di generare figli, dopo essere stati “costretti” a
posticipare tale desiderio a causa di un mercato del lavoro non amico della
famiglia.
Occorre dunque essere avvertiti
del fatto che l’Italia è un paese che, nonostante una certa retorica di
maniera, continua a vedere la famiglia solamente come una delle voci di spesa
del bilancio pubblico e non anche come risorsa strategica per la società. Del
pari, si continua a considerare la famiglia come “variabile dipendente”: le
grandi scelte a livello di assetto giuridico-istituzionale e di organizzazione
produttiva vengono prese a partire dal presupposto – ovviamente non dichiarato
– che debba essere la famiglia ad adeguarsi alle decisioni degli altri attori
sociali. E’ solamente in tempi recenti che si è “scoperto” – si fa per dire –
per un verso, che la famiglia è un soggetto attivo, dotato di una sua propria
autonomia e non già un mero aggregatore di preferenze individuali (come la
concezione individualista persiste nel far credere) e, per l’altro verso, che
il benessere della famiglia è magna pars del benessere generale: non può
esserci avanzamento duraturo sul fronte della felicità pubblica se non si
migliorano le condizioni di vita delle famiglie. Una recente ed accurata
indagine empirica (3) svela più e meglio di ogni considerazione teorica il
significato pratico di tale paradosso. Indagando sull’impatto della grande
crisi durante il triennio 2007-2009
sulla distribuzione dei redditi familiari di 21 paesi occidentali, gli Autori,
dopo aver mostrato che la crisi non ha colpito questi paesi in modo omogeneo,
ci informano che, mentre nella gran parte dei paesi considerati il reddito
disponibile delle famiglie è aumentato pur in presenza di una diminuzione del
PIL, in quattro paesi (Svizzera, Danimarca, Grecia, Italia) ciò non è accaduto.
Le famiglie italiane hanno perso il 3,3% del reddito disponibile – l’Italia è
ultima in tale poco invidiabile classifica - ; quelle francesi hanno guadagnato
il 2,2%; le inglesi il 2,5%; le tedesche le 0,5%; le americane il 2,5%. E come
v’era da attendersi, l’impatto negativo maggiore è stato sulle famiglie più giovani
e con figli a carico.
(1) Cfr. M. Matzke, I. Ostner, “Change and
continuity in recent family policies”, Journal of European Social Policy, 20,
2010.
(2) C. Saraceno, “Social inequalities in facing
old-age dependency”, Journal of European Social Policy, 20, 2010.
(3) S.P. Jenkins, A. Brandolini, J.
Micklewright, B. Nolan, “The Great Recession and the Distribution of Household
Income”, Sett. 2011.
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