Perché il «prossimo tuo» ha rivoluzionato la fede di Massimo Cacciari,
Corriere della Sera, 22 Ottobre 2011
La svolta del Vangelo: anche il
nemico va amato
È necessario iniziare dai testi
decisivi in cui risuona il mandatum novum: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto
il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e
amerai il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10,27). Il verbo agapán viene
usato per indicare sia l'amore che è dovuto al Theós, che quello verso il
prossimo, plesios. Anche la traduzione latina, proximus, rende bene
l'importanza del termine: proximus è infatti un superlativo. Non può trattarsi
di un semplice «vicino». Il plesios in quanto proximus ci riguarda con una
intensità che nessuna vicinanza, nessuna contingente contiguità potrebbero
raggiungere. Neppure si tratta, certo, di una voce inspiegabilmente nuova,
venuta da qualche misterioso altrove. Anche questo mandatum è pleroma, non
katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi.
Il precetto del pieno rispetto dei diritti dell'ospite, così come del compagno,
dell'alleato, dell'amico era stato affermato, infatti, con pieno vigore dai profeti
— e tuttavia il rea‘ del Primo Patto, che i Settanta traducono per lo più con
plesios, anche quando designa lo straniero, lo concepisce sempre come legato a
noi, o dal simbolo dell'ospitalità, o da rapporti di reciproca fiducia,
garantiti da patti e forieri di accordi utili alle parti. Il timbro del
mandatum evangelico «eccede» completamente questa dimensione. Già il fatto di
accostare immediatamente l'amore per il Signore a quello per il prossimo
costituirebbe vera novitas, anche se plesios qui traducesse esattamente rea‘.
Ciò che veniva comandato insieme ad altri doveri, qui completa addirittura la
Prima Parola! Il Logos che sta a fondamento dell'intera vita di Israele non si
esprimerebbe compiutamente, resterebbe imperfetto, se non significasse in se
stesso amore per il prossimo. È evidente che plesios è chiamato, allora, in
questo contesto, ad assumere una pregnanza in-audita — ma, ancor più, è
evidente che la visione stessa di Dio muta per questa sua straordinaria
prossimità al plesios. Solo in un punto, forse, nel Primo Patto si giunge ad
un'intuizione analoga — ed è del più grande significato che ciò avvenga in
Giobbe. L'intero dramma di Giobbe potrebbe essere così interpretato: questo
egli chiede, non che gli vengano risparmiati i supplizi (semmai le chiacchiere
degli advocati Dei), ma che Dio gli si mostri rea‘, plesios, proximus (16,21):
«come un mortale fa col suo rea‘ (plesion autoú)» egli vuole incontrarlo faccia
a faccia e difendere l'uomo davanti a Lui. Anche Mosè parlava col Signore come un
uomo parla al suo rea‘ (Esodo 3,11), ma la scena in Giobbe è radicalmente
mutata: in Esodo appare evidente la forma dell'accordo, anzi: dell'alleanza
imperitura; rea‘ esprime qui una prossimità attuale e incontestabile; per
Giobbe, invece, il Signore dovrebbe farsi rea‘; egli reclama che la relazione
tra il mortale e il suo Dio divenga una relazione tra prossimi.
Si potrebbe però sostenere che
Giobbe esiga la compagnia, l'amicizia, la vicinanza di Dio nel senso di quella
fiduciosa reciprocità, che il termine rea‘ sostanzialmente esprime. Egli vuole
amare il suo Signore come il prossimo, nell'aspetto del prossimo, ma ciò non
equivale affatto a amare il prossimo come il Signore. E se ciò avviene, è
evidente che il significato che attribuivamo a rea‘, e al plesios dei LXX,
viene rivoluzionato. È stato detto: «Amerai il tuo prossimo (agapeseis ton
plesion soú)» — ma vi è stato anche detto: odierai il nemico, odierai chi non è
con te nel vincolo delle leggi dell'ospitalità, nel senso più ampio del
termine. Ma questo non lo sanno forse anche i gentili? «Questo però io vi dico:
amate i vostri nemici e pregate per chi vi perseguita». In Luca il paradosso
dell'estrema vicinanza tra amore per Dio e amore per il prossimo; in Matteo
quello della relazione che viene a stabilirsi tra plesios e echthrós, tra
proximus e inimicus. Il nemico non può essere amato sul fondamento di un patto,
né in vista di qualche utile, né sperando reciprocità. E tuttavia va amato come
plesios. Nel termine viene compresa, cioè, la massima lontananza. Prossimo,
«superlativamente» prossimo, è lo stesso nemico (l'hospes che non solo si
dichiara apertamente hostis, ma addirittura inimicus, echthrós).
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Il testo qui pubblicato è tratto
dal saggio di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, «Ama il prossimo tuo» (pp. 144,
12), undicesimo e ultimo volume della collana «I Comandamenti» edita da il
Mulino
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