RUSSIA/ Perché il sacrificio dei martiri "salva" anche una
società laica? Di Adriano Dell'Asta, venerdì 28 ottobre 2011, http://www.ilsussidiario.net
Crisi dell'umano e desiderio di
felicità. Che cos'ha da dire la Chiesa oggi?. La sfida alla quale cerca di
rispondere l'annuale convegno della Fondazione Russia Cristiana ha avuto uno
spunto particolare nel tremendo attentato del gennaio scorso all'aeroporto
moscovita di Domodedovo, quando il terrore e l'angoscia sembrarono togliere
alla gente ogni speranza di una vita umanamente vivibile; questa sfida è però
quella quotidiana, non solo di fronte alle tragedie e alle crisi (che al
massimo la rendono più acuta), ma di fronte al fatto stesso della vita che, con
tutti i suoi limiti, cerca un significato corrispondente al suo desiderio
infinito. L'umano cerca l'infinito e l'eternità, qualsiasi cosa non gli
corrisponda desta una domanda e un grido.
L'esperienza del XX secolo, in
particolare l'esperienza della Russia e della sua Chiesa, con i patimenti e il
martirio che hanno dovuto subire, costituisce senz'altro una risposta a questa
domanda: in quell'inferno l'uomo non solo è potuto rimanere uomo, ma ha potuto
trasmettere il senso di una libertà, di una bellezza e di una dignità che
sembrano impossibili anche agli uomini esteriormente liberi. Le storie dei
martiri e dei grandi letterati russi, che dall'abisso dei campi di
concentramento ci hanno trasmesso la testimonianza di una vita più forte della
morte, sono in questo senso un patrimonio per gli uomini di ogni tempo e luogo.
Ma l'uomo d'oggi sembra non
cogliere più l'attualità di questa risposta, è come se dovesse prima rispondere
a un'altra sfida, quella di superare lo spazio che separa la sua intelligenza
dal suo cuore, lo spazio che separa il riconoscimento di una storia dalla
comprensione del fatto che quella storia non riguarda soltanto i libri o le
leggi della storia, ma riguarda la sua persona; non racconta la storia di
esseri mitici perduti nel passato o volati in un cielo distante dalle cose
della vita, ma la storia di ciascuno di noi oggi. La Chiesa stessa e i
cristiani devono vincere questa sfida per primi, facendo tesoro di quello che
Papa Benedetto XVI diceva recentemente, durante il suo viaggio in Germania,
quando ammoniva a non lavorare «per ottenere l’adesione degli uomini per
un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in
se stessi».
Il vero problema, la vera sfida è
a recuperare il senso dell'umanità di ciascuno di noi, a riappropriarsi del
proprio io: se non ci riusciamo non possiamo sperare e non possiamo immaginare
una speranza adeguata alla misura dell'uomo. L'uomo può sperare perché è
chiamato all'infinito; se non recupera questa coscienza e resta chiuso nei suoi
orizzonti limitati non ha alcuna possibilità di vincere, continuerà a cercare
soddisfazioni parziali in piccole cose finite che continuamente lo deluderanno
ogni volta che arriveranno alla conclusione del loro ciclo vitale.
E questo gli accadrà sempre,
inesorabilmente, anche se si impadronirà perfettamente di tutte le leggi
dell'economia e della natura: in fondo le tragedie del XX secolo sono nate
appunto da questa pretesa di dominare il finito; e sono nate da questa pretesa
non solo o soprattutto perché alla fine la natura (le leggi dell'economia o le
leggi della razza) non si è lasciata dominare, ma per un errore e una
dimenticanza di origine: l'uomo è libero, e voler costruire una società
dimenticando questo elemento essenziale e fondandosi solo sulla necessità delle
leggi significa distruggere l'uomo prima ancora di iniziare ad organizzarne la
vita e la società.
Ma la speranza dell'uomo di
vincere la morte, il finito e la sua necessità non dipende soltanto dal suo
desiderio, dalle concessioni che riuscirà a strappare ai potenti o dal dominio
che riuscirà ad imporre alle leggi della storia e della natura: la speranza
dell'uomo è ragionevole perché si radica in una realtà, la realtà dell'essere
con la sua gratuità di cosa non fatta da mano d'uomo. E' la scoperta delle cose
nella loro qualità fondamentale di essere date, nella qualità che costituisce
la stoffa di tutto l'essere, una qualità che l'uomo può riconoscere se solo non
si lascia sviare dalle pretese di un'autonomia sterile e ingiustificata e che
poi rende possibile una speranza anche nei momenti più tragici.
Ed è proprio in questo essere che
è tutto dono, che può rinascere la speranza autentica che nulla può scuotere
nella sua ragionevolezza, la speranza dei martiri che rinunciano a tutto non
perché attendono qualcosa che non sanno se mai verrà, ma perché hanno già
trovato «una “base” migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che
nessuno può togliere».
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