Avvenire.it, 20 ottobre 2011, SPECIALE - Anche per l'Europa l'embrione
è un essere umano
La sentenza della Corte europea
di giustizia di martedì, che ha sancito il divieto di brevettabilità per
l’utilizzo di embrioni umani a fini industriali e commerciali, ha aperto
un’essenziale questione antropologica e giuridica: l’embrione è soggetto di
diritto? «È talmente vera la soggettività giuridica dell’embrione che è
prevista in una specifica norma nella direttiva europea del 1998», risponde
Andrea Stazi, docente di Diritto comparato presso l’Università europea di Roma.
«La sentenza della Corte di Lussemburgo fa riferimento a questa norma, e ci
fornisce un’importantissima interpretazione estensiva del concetto di embrione,
includendo anche gli ovuli non fecondati quando contengano un nucleo di cellule umane».
La Corte Ue interpreta il diritto
comunitario per assicurarsi che venga applicato nello stesso modo in tutti i
Paesi dell’Unione. Questo determina che la sentenza sia destinata a connotare
in maniera rilevante l’ordinamento comunitario. È facilmente prevedibile
infatti che, pur facendo riferimento nello specifico a questioni di
brevettabilità, questa interpretazione possa avere ricadute su altri temi. «La
dottrina giuridica e i tribunali – continua Stazi – dovranno riconsiderare la
nozione di embrione alla luce di questa posizione ufficiale della Corte di
giustizia, che ha fissato con chiarezza un’interpretazione autentica della
norma».
«L’interpretazione della Corte è
destinata ad avere un’efficacia veramente pervasiva, anche al di là del caso
specifico», commenta Filippo Vari, professore straordinario di Diritto
costituzionale. «Con questa sentenza, veramente epocale, la Corte supera la
visione fondata sul soggetto di diritto, affermando che l’embrione è essere
umano e come tale portatore della dignità tipica degli esseri umani che è uno
dei princìpi fondamentali e fondanti dell’Unione europea». Ma non è tutto. Per
Vari con questa decisione si sgombra anche il campo da tutte quelle teorie
capziose che volevano introdurre distinzioni tra le varie fasi dell’embrione
così da poterne giustificare l’utilizzo.
«E’ stata riconosciuta continuità
all’essere umano, arrivando fino alle sue primissime fasi», spiega Alberto
Gambino, ordinario di Diritto privato. «In questo modo, qualificando in termini
sempre più completi l’essere umano, se ne è ampliata la sfera di protezione».
Qual è la ratio della sentenza? «I brevetti sono procedimenti legali per garantire
l’esclusiva all’inventore di un nuovo ritrovato o procedimento tecnico –
continua Gambino –. Abbiamo quindi chiaramente a che fare con cose, con
applicazioni, non con soggetti, esseri umani. Dire che non si può brevettare
ciò che viene dalla vita significa riconoscere che non sono cose, ma enti
dotati di soggettività giuridica. Di qui a dire che sono soggetti di diritto,
quindi, il passo è breve».
Una parte consistente della
dottrina giuridica europea aveva già dimostrato una spiccata sensibilità verso
la tutela dell’embrione, ora ampiamente recepita dalla Corte. Non va però
dimenticato che questo riconoscimento non estende il divieto anche al fare
ricerca utilizzando o distruggendo embrioni umani ma vieta solo la
brevettabilità dei risultati. La decisione si pone come importante paletto per
disincentivare le lobby farmaceutiche, ma, più realisticamente, dirotterà gli
investimenti verso quei Paesi che non hanno un’opportuna normativa a tutela
dell’embrione.
Molti anche ieri gli interventi
dal mondo politico e accademico. Mario Mauro, capogruppo Pdl al Parlamento
europeo, ha commentato che «sull’inviolabilità dell’embrione umano la Corte ha
stabilito un principio fondamentale nel rispetto di quello che dovrebbe essere
un concetto etico alla base della ricerca». Sulla stessa linea anche Domenico
Di Virgilio, vicepresidente dei deputati del Pdl, già presidente
dell’Associazione medici cattolici italiani: «Il riconoscimento della piena
dignità dell’embrione umano è per noi medici cattolici impegnati in politica
fonte di estrema emozione e soddisfazione».
Adriano Pessina, direttore del
Centro di Bioetica dell’Università Cattolica, rileva come «il principio ha una
grande portata simbolica oltre che una conseguenza pratica: vietare lo
sfruttamento significa ribadire che non contano soltanto i risultati che si
possono raggiungere, ma che è decisivo come vengono raggiunti». Anche
l’Osservatore Romano saluta la decisione della Corte come un fatto positivo ed
esprime l’auspicio che questo riconoscimento di diritti finora spesso ignorati
possa trovare conferme anche in altri ambiti.
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