Oliver Sacks. "Io, da dottore a paziente così racconto la mia
malattia", di ANGELO AQUARO - LA REPUBBLICA, 18 OTTOBRE 2011
"Mi sento sempre più un
medico, ho spesso sacrificato la scrittura per la professione". "Vivo in un mondo a due
dimensioni e sono circondato dalle lenti di ingrandimento". L´autore di "Risvegli" spiega
come è cambiata la sua vita: a causa di una patologia rara non riconosce più i
volti. Affronta il tema anche nel
nuovo libro, "L´occhio della mente", che esce adesso in Italia
New York. «Ormai vivo in un mondo piatto. E so
benissimo che non sarà più come prima. Mi adatto: ci provo. Ma a volte faccio
errori bizzarri. Tendo la mano e manco la presa. Oppure cerco qualcosa e
sbaglio bersaglio: così». Il dottor Oliver Sacks allunga la mano verso il
registratore e il traffico del West Village copre l´accento inguaribilmente
inglese dopo cinquant´anni d´America. Sulla parete un vecchio poster illustra
le sezioni del cervello. Il divanetto è invaso da coperte e cuscini. Dal
soffitto pende un ventilatore. Il condizionatore incastonato nella finestra fa
un casino del diavolo: «Non posso prendere caldo».
Il neurologo più famoso del mondo
vive da single nel cuore della New York che era degli artisti: pesa? «A volte
mi piace così, a volte mi sento un po´ solo. Diciamo che dopo 70 anni ci si
abitua». Porta un gilet di lanetta sulla camicia oxford rosa, i pantaloni kaki
di Banana Republic e le sneakers ai piedi. Si sistema il cuscino sotto la
sedia. Alla fine dell´intervista confesserà che "L´uomo che scambiò sua
moglie per un cappello" – titolo del libro che lo impose anche in Italia –
in fondo è anche un po´ lui che per anni ha sofferto di uno strano disturbo… Ma
per adesso sposta ancora una volta più in là il registratore.
Le dà fastidio?
«Ma no. Però sono felice che
prenda anche appunti. L´ultima volta è arrivato un tizio che aveva dimenticato
di accenderlo. Alla fine mi ha guardato implorante: me la dà un´altra oretta?».
Nell´Occhio della mente ci apre
un diario da incubo: la scoperta di una malattia che a 78 anni le ha fatto
quasi perdere la vista dall´occhio destro. Lei ha reagito appunto con
l´"occhio della mente": quello che integra la visione perduta con le
esperienze elaborate dal cervello. Scrive: «Il tempo dirà se riuscirò ad
adattarmi a questa sfida». Come va?
«Ho appena passato un weekend in
campagna: lunghe passeggiate. Ma lì è più facile. Vivo in un mondo a due
dimensioni e in città è tutto più complicato. I bordi dei marciapiedi che non
riesci a intravedere. E poi questo traffico. Mi adatto: anche se non così bene
come pretendo dai miei pazienti. Vivo circondato da lenti di ingrandimento.
Leggo libri che hanno i caratteri più grandi. Potrebbe andare meglio se mi
operassi di cataratta: ma se andasse storto mi ritroverei completamente cieco».
Da dottore a paziente: che cosa è
cambiato?
«Ascolto con più attenzione. Ho
sempre cercato di immaginare quello che provava l´altro: cercando di mettermi
dalla sua parte. Paradossalmente adesso cerco di fare più attenzione a quello
che dico io. Quello che dici è importante: e come lo dici. Ripenso al momento
in cui il mio medico mi accennò alla possibilità di un tumore all´occhio. Non
finii neppure di ascoltarlo e nella mia testa risuonavano solo due parole:
cancro, cancro. Non dico che ci sono volte in cui il medico non debba dire la
verità. Ma la delicatezza prima di tutto».
Che non è però di tutti.
«Il medico che m´ha curato –
David Abramson, il libro è dedicato a lui – è stato eccezionale. Ma vede il mio
polso? Beh, un dolore terribile: capita soprattutto agli scrittori. Chiamo e
arriva quest´altro dottore. Non dice neppure "Salve". Non fa una
domanda. Prende il polso. Solleva il braccio. Fa quello che deve fare con la
sua macchinetta e stop. Gli dico ironico: "Oh, piacere di
conoscerla!". Per carità: mi ha guarito. Ma non puoi demandare tutto alla
macchinetta e via. La tecnologia è importante. Ma diceva Martin Buber: il
problema non è la tecnologia, il problema è come umanizzarla».
Non è un tecnomane.
«Ecco: questa è la mia
stilografica. E questa è la mia macchina per scrivere. Sono i miei attrezzi
tecnologici. Però lo so: sono fortunato. Poi è la mia assistente Karen a
riversare tutto su computer».
L´esperienza della malattia ha
cambiato anche lo scrittore? E adesso si sente più medico o scrittore?
«Direi più medico. Meglio: il
medico non è mai stato sacrificato allo scrittore. Mentre lo scrittore sì.
Prendete la storia che apre il libro: la pianista che non sapeva più leggere la
musica. Un caso bellissimo: ma ho dovuto aspettare tre anni prima di poterne
scrivere. C´è una linea da rispettare tra la professione medica e la
scrittura».
La prima volta che ha messo piede
nell´ospedale che ispirerà Risvegli – dove ha incominciato a trattare i malati
di encefalite letargica – erano gli anni Sessanta e quella clinica, la
"Beth Abraham", si chiamava ancora "Casa degli incurabili".
La dizione è stata abbandonata da un pezzo. Ma che senso hanno oggi le parole
"curabile" e "incurabile"?
«Qual è il medico che la gente
stima di più? Il chirurgo. Perché è quello che tecnicamente dà più
soddisfazione. Il chirurgo opera: cioè taglia e rimette a posto. Ripara. La
domanda è: cosa fare quando il mio problema non è "operabile"?».
Che cosa fare?
«La medicina è l´arte del
possibile. Il mio mondo è diventato visivamente piatto: e io mi ci adatto. Ora
mi accompagno con un bastone. Prima utilizzavo un passeggino. Ecco: la medicina
è l´arte di adattarsi. Certo se fossi più giovane riuscirei ad adattarmi
meglio».
Giovane e magari molto ricco:
avere i mezzi aiuta. Malgrado la riforma sanitaria di Barack Obama.
«Che problema qui in America: se
non paghi ti sbattono fuori dall´ospedale. Ma, se la cura è soprattutto
"adattamento", allora proprio la riabilitazione dovrebbe essere la
parte più importante. Io sono stato fortunato perché la mia assicurazione
pagava bene: in ospedale c´era un tizio che il giorno dopo l´operazione al
femore era già per strada».
Fa bene a indignarsi. Eppure lei
non ha fama da intellettuale "impegnato".
«Mi piace quell´espressione che
usano gli antropologi: osservatore permanente».
Prendiamo adesso: con i ragazzi
di tutto il mondo che sognano di occupare Wall Street.
«Mai partecipato a una marcia.
Cioè: una volta sola. Washington. Anche lì osservatore: quanto tempo sarà
passato? Ero andato a raccontare la "rivoluzione dei non udenti":
questo grande raduno di piazza per i loro diritti. Ma non fa per me: anche se
riconosco che poi qualcuno lo debba fare».
A proposito di sguardo
antropologico. Lei ha descritto lo "stato vegetativo cronico" come
una condizione da zombie. Dai romanzi al cinema passando per la tv gli zombie
sono tornati di moda: malgrado le proteste e i movimenti sarà una metafora
della società?
«Negli ultimi anni abbiamo
assistito a un cambiamento epocale. Torniamo alla tecnologia. Fino a poco tempo
fa un tizio sorpreso a parlare da solo per strada sarebbe stato considerato uno
schizofrenico: oggi sta conversando al telefonino. Non dico che non sia
strepitoso questo restare continuamente in contatto: ma consideriamo anche il
prezzo di questa interconnessione. Sembra un paradosso: più aumenta la
comunicazione e più si pensa meno».
C´è un vecchio gioco che nella A
di America riassume il suo carattere: Adultery, Alcol, Addiction e
Advertisement – cioè adulterio, alcol, dipendenza e pubblicità.
«Diceva lo psicologo William
James: la miglior cura per la dipendenza è la religione. E la parabola di
George W. Bush lo dimostra bene».
Ma l´America sa anche cambiare.
Oggi la New York Public Library ha speso un milione di dollari per l´archivio
di Timothy Leary, lo scienziato che finì in galera per gli studi sull´Lsd.
Anche lei ha confessato di avere sperimentato con le droghe nei Sessanta.
«Purtroppo Leary fece tutta
questa pubblicità col suo messaggio seducente e dannoso. Le anfetamine sono il
peggio: fisicamente e psicologicamente. Ma lui si trasformò in una specie di
profeta. Com´era il suo slogan? Tune in, drop out, lasciatevi andare. Non lo
ricordo più. Ma un conto è lasciarsi andare per un weekend: troppa gente s´è
lasciata andare per sempre».
Ma il suo rapporto con quegli
esperimenti?
«Sto ultimando un libro proprio
sulle allucinazioni e lì c´è tutto un capitolo dedicato alle droghe. Dico solo
questo: ci abbiamo messo milioni di anni per arrivare a essere quello che siamo
– e non esiste scorciatoia artificiale che prima o poi non faccia danni».
Non smette mai di cercare
spiegazioni. Anche su di sé: è vero che fa psicoanalisi da 40 anni?
«Anche stamani. Come ogni lunedì
e mercoledì: alle 6 del mattino. Psicoanalisi e neurologia? Genericamente
parlando il mestiere dello psicoanalista è ascoltare: e anche il mio. Del resto
Sigmund Freud era neurologo prima di diventare psichiatra. E poi la
psicoanalisi serve a liberarci dalle paure profonde: a permetterci di essere
più liberi a livello conscio. Per tornare al discorso di prima: a farci
diventare meno zombie».
Nel libro rivela anche di
soffrire di una malattia dal nome difficile: la prosopagnosi.
«Basta dire: la difficoltà a
riconoscere i volti».
Il racconto è straordinario: come
quando rivela che durante i ricevimenti la sua assistente faceva indossare agli
ospiti delle targhette col nome. Domanda: ma se riconoscere un viso può essere
così difficile – cioè se il riconoscimento sta soltanto nel nostro cervello –
allora anche bellezza o bruttezza, per esempio, sono attributi relativi? Anche
qui a scattare è l´"occhio della mente"?
«Non sempre. L´affermazione è
sicuramente vera per le persone che noi amiamo: e che magari solo noi
"vediamo" belle. Ma non può valere per un divo del cinema. La
bellezza estetica esiste: comunque la vogliamo chiamare. Marilyn Monroe non
poteva certo definirsi una bellezza intellettuale o morale: ma qualcosa aveva!
E del resto: provate a scendere a passeggio per strada. Sono sicuro che vedrete
un sacco di gente bella anche se non sarete in grado di "riconoscere"
nessuno. Anzi: in questo siamo tutti prosopagnosici».
Nessun commento:
Posta un commento