Avvenire.it, 27 febbraio 2012 – IDEE - Scola: I tre pilastri della
Solidarietà, di Angelo Scola
Parlare in modo credibile di solidarietà
significa aggirare due regimi di discorso dominanti, che rappresentano ormai
due luoghi comuni: la solidarietà come appello retorico, puramente
sentimentale, a “fare del bene”; e la solidarietà come maquillage del
capitalismo, cioè come “etichetta” per sdoganare con l’inganno un modello
economico non raramente predatorio, magari sotto forma di “aiuti umanitari” in
cambio di ricchezza. In entrambi i casi, come è facile capire, non è in gioco
nessuna “esigenza etica”, né tantomeno una “speranza spirituale”.
È chiaro dunque che la “maniera
di dare” (Lévinas) fa davvero la differenza: un conto è dare perché si
riconosce una interdipendenza ineludibile e perciò una corresponsabilità in
relazione a un bene comune da condividere (il che, guarda caso, è proprio il
senso etimologico di solidarietà); un conto è dare perché si ha a cuore solo se
stessi.
Forse è per via di questa
differenza, divenuta sempre più marcata, che le scienze sociali si stanno dando
da fare per mettere in questione la solidarietà, se non addirittura per
ripensarla da cima a fondo. La dottrina sociale della Chiesa, dal canto suo, ha
ben presente l’impoverimento concettuale cui fa seguito la graduale
estenuazione del senso stesso delle buone pratiche solidali. Così non ha
rimandato il compito di sfidare i luoghi comuni, suggerendo con coraggio
un’articolata architettura. D’altra parte, come si legge nel Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (nn. 162-163), i principi della dottrina sociale,
tra i quali ovviamente c’è anche la solidarietà, devono essere apprezzati nella
loro unità, interrelazione e articolazione. Quindi estrapolare il concetto di
solidarietà è già un errore.
Non è allora per caso che
Benedetto XVI, in occasione della quattordicesima sessione della Pontificia accademia
per le Scienze sociali, ha ritenuto imprescindibile annodare la solidarietà ad
altri tre concetti fondamentali della dottrina sociale: il bene comune, la
sussidiarietà e la dignità umana. L’idea è questa: perché abbia senso parlare
di solidarietà, occorre riconoscere un bene comune sociale, che è innanzitutto
il bene dell’essere insieme (in comune).
Di tale bene comune, la
solidarietà esprime appunto la compartecipazione nei beni e nei pesi sociali;
d’altra parte, se vogliamo godere di questo bene comune in un modo non lesivo
della dignità umana non possiamo mortificare (paternalisticamente) l’agire
degli attori sociali: la sussidiarietà serve proprio a questo scopo, cioè
esprime l’iniziativa (singola o collettiva), altrettanto fondamentale e non riducibile
al tutto sociale stesso. Da tutto ciò emerge un vero e proprio schizzo
architettonico a forma di croce. Dice infatti Benedetto XVI: «Possiamo
tratteggiare le interconnessioni fra questi quattro principi ponendo la dignità
della persona nel punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che
rappresenta la “solidarietà” e la “sussidiarietà”, e uno verticale, che
rappresenta il “bene comune”».
Ci sono dunque in questo
“schizzo” due assi fondamentali che dobbiamo trattenere, se vogliamo
smantellare i luoghi comuni del discorso corrente sulla solidarietà. Sull’asse
orizzontale: non è possibile rispettare la dignità umana (altro grande luogo
comune) senza aver cura solidale di chi è in difficoltà; ma non è possibile una
solidarietà autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di
iniziativa. Così, se la sussidiarietà corrisponde alla dimensione di
singolarità irriducibile della persona come protagonista e non oggetto della
società, la solidarietà corrisponde a quella della appartenenza sociale:
duplice dimensione, la cui espressione e il cui rispetto sono indispensabili
per una socialità a misura della dignità di ogni persona umana. Sull’asse
verticale: il bene comune è il bene condiviso nella stessa socialità, che come
bene umano non ha automatica attuazione ma va voluto e praticamente perseguito.
Esso sta a fondamento della società, come un bene di persone il cui valore dà
sostanza e insieme eccede il bene comune. Per questo il bene comune
compiutamente inteso non si conclude con quello storico sociale, ma è aperto al
bene comune delle persone come tali.
In questo senso non è possibile
rispettare fino in fondo la dignità umana senza adombrare una prospettiva
escatologica di compimento della persona e di tutte le persone. Se il bene
comune della convivenza diventasse orizzonte intrascendibile, il rischio più
grande sarebbe quello della deriva totalitaria, cioè dell’appiattimento della
persona entro la soffocante misura di un’aspettativa di salvezza intrastorica:
ogni totalitarismo è, in fondo, la divinizzazione di un’idea mondana di vita
buona.
Ovviamente questo non deve
significare sottomettere la politica al regime della teologia. Significa, però,
liberarsi dal delirio di poter garantire da soli la promessa di felicità che
spinge gli esseri umani a costruire società ordinate secondo giustizia. Se ora
proviamo a leggere sulla base dello schizzo proposto da Benedetto XVI questa
necessaria verticalizzazione del bene comune, che cosa succede? Diventa
comprensibile quello che già Maritain aveva indicato nel 1947: c’è un bene
comune – come san Tommaso insegna – che vale di più del bene dei singoli
consociati; ma questo bene comune, che Maritain chiama “bene comune immanente”,
vale meno di quel bene cui la comunità umana è ultimamente ordinata e che per
Maritain (come per Tommaso) è il «Bene comune increato delle Tre Persone
divine».
Si capisce allora perché
Benedetto XVI affermi che la vera solidarietà compie se stessa quando diviene
carità e che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore:
perché è qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta
inaudita alla promessa inscritta nel bene comune immanente. Questo schizzo
architettonico diventa allora un riferimento essenziale per tutte quelle
dinamiche contemporanee che puntano a un’ipotesi di vita buona umanamente
sostenibile. In particolare, le due coordinate (orizzontale e verticale)
disegnano un framework che sembra diventare irrinunciabile per interpretare lo
spazio sociale in senso autenticamente democratico.
L’asse orizzontale
(sussidiarietà-solidarietà) è infatti compatibile solo con un’adeguata
valorizzazione del protagonismo tipico nella società civile: l’idea, verso cui
si stanno orientando le più acute interpretazioni sociologiche contemporanee, è
proprio che c’è un capitale di solidarietà che solo gli attori della società
civile sono in grado di generare e di cui nessuno Stato democratico può fare a
meno. Da qui l’accento posto in maniera decisa su assetti istituzionali in
grado di garantire, attraverso il principio di sussidiarietà, la libertà e le
forme civili dell’essere insieme.
L’asse verticale (bene comune
immanente-Bene comune increato) esige invece quella libertà che, da più parti
ormai, viene riconosciuta sempre più consapevolmente come irrinunciabile: la
libertà religiosa. Si tratta infatti di giungere a riconoscere che la
dimensione socio-politica non può essere l’orizzonte esclusivo della persona
umana. Certo, anche solo parlare di questo progetto architettonico è divenuto
oggi tanto affascinante quanto impegnativo. Ma questa difficoltà è parte del
problema che l’etica cristiana deve affrontare, posto che voglia sostenere
ragionevolmente la speranza di una vita sociale degna dell’umano.
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