Le neuroscienze decretano la fine del libero arbitrio? (parte quarta), Michele
Forastiere, michele.forastiere@gmail.com,
21 febbraio, 2012, http://www.uccronline.it
Ricorderete che nell’ultimo
articolo (Ultimissima 5/2/12 ), il terzo della serie sul libero arbitrio,
avevamo esaminato il punto di vista dell’informatica sul problema del rapporto
mente-cervello (la cosiddetta questione ontologica).
Eravamo arrivati alle seguenti
conclusioni:
A) L’informatica non potrà mai
dare una risposta soddisfacente alla questione ontologica, fondamentalmente
perché nemmeno l’eventuale superamento di tutti i test da parte di un’ipotetica
“mente artificiale” sarebbe in grado di falsificare l’ipotesi interazionista,
né di verificare quella riduzionista;
B) Vi sono fondate ragioni
teoriche (la mancanza di intenzionalità e l’argomento gödeliano) per ritenere
che la mente umana non sia effettivamente riducibile a un meccanismo dal
funzionamento algoritmico;
C) Per avere qualche speranza di
arrivare in porto, un efficace studio teorico del legame tra mente e cervello
richiede verosimilmente un’analisi approfondita dei fenomeni fisici
fondamentali coinvolti nell’attività neurale.
Prima di procedere nell’analisi è
necessario chiarire alcuni concetti. La nostra conoscenza del funzionamento
della natura deve molto allo splendido edificio teorico che gli scienziati
avevano messo a punto alle soglie del XX secolo, comunemente definito fisica classica.
Con questo termine si intende, in buona sostanza, il paradigma secondo cui la
realtà oggettiva è costituita da microscopiche particelle solide, interagenti
mediante forze che seguono leggi matematiche rigorose. Secondo questa
concezione, l’Universo è uno smisurato meccanismo, i cui innumerevoli
ingranaggi non possono fare altro che ruotare e incastrarsi nel modo stabilito
da inesorabili leggi matematiche – in modo del tutto indipendente dai pensieri,
dalle emozioni e dalle intenzioni delle persone “presenti sulla scena”.
Insomma, apparentemente la fisica classica implica il determinismo, e risolve
il problema ontologico a favore del riduzionismo materialista. Dico
“apparentemente”, perché è comunque fatta salva la possibilità di una qualche
forma di dualismo cartesiano o spiritualismo che giustifichi in maniera non
materialista l’autocoscienza e il libero arbitrio – un’ipotesi che, sebbene
ripugni a molti studiosi, rimane pur sempre scientificamente non falsificabile.
Tuttavia, da circa ottant’anni sappiamo
che l’Universo materiale non è descritto correttamente dalla fisica classica.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, infatti, una serie di esperimenti
e di accurate riflessioni teoriche avevano convinto la comunità scientifica che
era necessario un profondo ripensamento del paradigma classico. Si giunse così,
Intorno agli anni ’30 del XX secolo, alla formulazione della meccanica
quantistica , una teoria destinata a rivoluzionare il mondo della scienza – e
non soltanto quello. Una delle caratteristiche principali della meccanica
quantistica consiste nella sostituzione dei numeri che in fisica classica
descrivono le proprietà dei sistemi con operazioni matematiche astratte . Da
questa sostituzione (detta “quantizzazione” ) segue il famoso Principio di
Indeterminazione di Heisenberg, secondo cui (per esempio) non è possibile
determinare con esattezza contemporaneamente la velocità e la posizione di una
particella. Il livello di indeterminazione dipende da una costante universale
denominata Costante di Planck , che è un fattore onnipresente nelle equazioni
della meccanica quantistica. È interessante notare che, ponendo tale costante
uguale a zero, le equazioni quantistiche si riducono alle equazioni classiche!
La fisica classica si rivela dunque un’approssimazione della fisica
quantistica: in quanto tale, perciò, diventa un approccio da considerarsi
valido solo entro limiti che dipenderanno dal tipo di fenomeno studiato.
Il Principio di Indeterminazione
ha una ricaduta immediata su uno dei problemi che abbiamo incontrato in questo
percorso. È chiaro, infatti, che in un Universo quantistico il determinismo non
è più sostenibile, né in teoria, né in pratica. Il motivo è che, se è vero che
i sistemi macroscopici costituiscono – di norma – delle eccellenti
approssimazioni classiche, è altrettanto vero che la dinamica dei sistemi
complessiappare estremamente sensibile alle condizioni iniziali . In parole
povere, diventa teoricamente impossibile prevedere l’evoluzione temporale di un
qualunque sottoinsieme materiale dell’Universo, perché non se ne può conoscere
con precisione infinita lo stato iniziale. Un’altra importante
caratteristica,propria della meccanica quantistica, è il fatto che
l’Osservatore diventa parte integrante di ogni esperimento. È infatti la sua
scelta preliminare di una tra varie possibilità prestabilite a fissare la
successiva evoluzione del sistema (che avverrà secondo precise leggi
matematiche), e quindi a determinare i potenziali risultati di una misura. Il
punto-chiave è che non è possibile dire – in base alle leggi quantistiche -
quale tra le intenzioni fisicamente consentite sarà effettivamente scelta, e
quando questa scelta sarà attuata. In definitiva, l’Osservatore va trattato,
nelle applicazioni pratiche, come un agente capace delle libere scelte che
servono a fissare i parametri indipendenti della teoria. Fu John Von Neumann,
uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, a fissare il formalismo
matematico di tale azione , secondo lo schema applicativo oggi universalmente adottato
dalla comunità scientifica.
Si capisce come l’idea di un
Osservatore “attivo” vada a incidere sul problema del rapporto causale
mente-cervello – sebbene, naturalmente, non possa risolverlo. La questione
dell’effettivo ruolo della coscienza, infatti, riguarda l’interpretazione della
teoria quantistica – ancora oggi largamente dibattuta – e non la sua
applicazione – che è invece ampiamente consolidata nella pratica sperimentale.
Va detto che esistono più di dieci interpretazioni possibili per la meccanica
quantistica, tutte ugualmente valide dal punto di vista scientifico, perché
indistinguibili mediante esperimenti (la progettazione di test capaci di
discriminare tra le varie interpretazioni è tuttora oggetto di ricerca attiva).
Secondo una di queste interpretazioni, dovuta allo stesso von Neumann e a
Eugene Wigner – recentemente rielaborata da Henry Stapp – la coscienza gioca un
ruolo causale attivo. In pratica, secondo l’interpretazione di von
Neumann-Wigner-Stapp l’interazionismo diventa un’ipotesi che si inserisce in
maniera naturale nel contesto della meccanica quantistica. Chiaramente, in
questa ottica la mente si conferma essere un fenomeno irriducibile alla pura
materialità. È interessante osservare
che l’analisi di Stapp, oltre a eliminare alla radice i problemi legati a una
concezione meccanicistico-algoritmica della mente, è in grado di spiegare
coerentemente i fenomeni neuro-psicologici . Il meccanismo che sarebbe alla
base del legame mente-cervello è l’Effetto di Zenone Quantistico . Tale effetto,
che è stato verificato direttamente in sistemi atomici, viene usato con ogni
probabilità anche nell ‘orientamento magnetico degli uccelli.
Le critiche alla proposta di
Stapp fanno principalmente appello a una presunta inutilità dell’approccio
quantistico nello studio del cervello umano (vedere per esempio qui ). Tale
obiezione non sembra , in realtà, particolarmente giustificata. Bisogna
ricordare, tra l’altro, che la fisica classica è solo un’approssimazione alla
fisica quantistica: e non è detto che essa sia un’approssimazione valida in
tutti i dettagli nel caso di un oggetto complesso come il cervello, il cui
funzionamento dipende in maniera determinante da flussi di ioni attraverso
canali di dimensioni atomiche. Si aggiunga il fatto che, negli ultimi anni, si
sono accumulate numerose prove di comportamento quantistico in oggetti
macroscopici e in esseri viventi . In
ogni caso, è bene ribadire che la fisica classica non può produrre risposte
definitive al problema della mente. Nella prospettiva del materialismo,
infatti, il paradigma classico implica una concezione meccanicistica del
cervello, e di conseguenza un’idea di mente algoritmica – una soluzione che,
come abbiamo visto, risulta insoddisfacente sotto molti aspetti.
Giunti infine al termine di
questo lungo percorso, direi che si possa affermare con sicurezza che né le
neuroscienze , né l’informatica , né la fisica decretano la fine del libero
arbitrio dell’Uomo. Oserei anzi esprimere un concetto davvero azzardato: l’idea
che anche la scienza moderna cominci a concepire la mente come una componente
essenziale del tessuto della Realtà, e non solo (per usare le parole dello
stesso Stapp) come “un testimone causalmente inerte dell’insensata danza degli
atomi”.
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