Darwin Day 2012, il biochimico Tortora: «c’è troppa ideologia
darwiniana» - 19 febbraio, 2012, http://www.uccronline.it
Penultimo giorno della nostra
celebrazione dell’anniversario del grande naturalista Charles Darwin
(1809-1882), padre della teoria evolutiva delle specie animali e vegetali per
selezione naturale, in risposta all’attività di circoli di scettici e
razionalisti che vorrebbero appropriarsi, attraverso annuali convegni e relazioni
su Darwin, delle conseguenze scientifiche del suo pensiero per trarne
conclusioni filosofico-teologiche, in particolare circa l’inesistenza di un
Creatore. Questa strumentalizzazione ha generato per reazione numeri movimenti
creazionisti, i quali rispondono con un’altrettanto indebita interpretazione
letterale della Bibbia. Volendo distaccarci da questi due fondamentalismi,
abbiamo chiesto un commento ad alcuni ricercatori e docenti universitari,
esperti in tematiche scientifiche e filosofiche. Abbiamo iniziato lunedì con il
matematico Luigi Borzacchini, seguito dal contributo dell’antropologo Fiorenzo
Facchini, da quello del premio Nobel per la fisica William D. Phillips,
dall’intervento dell’evoluzionista Massimo Piattelli Palmarini, da quello della
filosofa Laura Boella, quello del del fisico Gerald L. Schroeder e dal commento
di ieri del biochimico Mariano Bizzarri.
Il prof. Paolo Tortora è
professore ordinario di Biochimica presso l’università di Milano Bicocca, dove
è anche Coordinatore del Dottorato in Biologia. È referee per alcune riviste
scientifiche internazionali e collabora con l’Istituto Iinserm U710 di
Montpellier (Francia). Ha cortesemente risposto così a due nostre domande:
“Prof. Tortora, la teoria di
Darwin ha secondo lei la capacità di negare l’esistenza di un Creatore, così
come insegnato dalla teologia cristiana? Può eventualmente contribuire in
qualche modo alla riflessione teologico-filosofica?”
«Questa domanda rimanda a una
problematica più generale: vale a dire se l’osservazione della realtà, e in
particolare di alcuni suoi aspetti, possa dare un’indicazione, parziale o
conclusiva, in merito all’esistenza e alla natura di una realtà trascendente.
Come è universalmente noto, si tratta di un problema che accompagna la
riflessione umana fin dalla più remota antichità. In epoche più recenti, lo
straordinario sviluppo scientifico occorso soprattutto a partire dal XIX secolo
ha fatto da propulsore a correnti di pensiero che, di pari passo che si
approfondiva la comprensione delle leggi che governano il mondo fisico,
arrivavano nella sostanza a negare ogni dimensione trascendente. Il concetto di
fondo sotteso a queste concezioni è che la religione sia un surrogato
all’ignoranza, ossia un tentativo umano di dare ragione di ciò che nella realtà
materiale risulta ancora incompreso. Stando a questa visione, il movente
originario del senso religioso non sarebbe l’interrogativo circa il mistero
entro cui l’intera realtà è racchiusa, ma l’esigenza di dare spiegazioni
opportune agli interrogativi circa il mondo visibile. Da tali presupposti
discende come conseguenza necessaria che la visione religiosa debba arretrare
di pari passo che si incrementa la conoscenza scientifica.
In un contesto culturale europeo
che era già in parte orientato in tal senso, nel 1859 Darwin pubblica la sua
opera principale (denominata sinteticamente “L’origine delle specie”). Non mi
sembra questa la sede per delineare nel dettaglio la teoria darwiniana. È
tuttavia indispensabile menzionarne almeno gli aspetti essenziali come premessa
alle riflessioni che seguiranno. Darwin asseriva che nelle specie biologiche si
genera un’ampia variabilità dei caratteri (la cui reale genesi gli era
comprensibilmente ignota, date le conoscenze dell’epoca), che i singoli
individui sono continuamente in lotta per la sopravvivenza all’interno e
all’esterno della specie, e che sopravvivono solo i più adatti, vale a dire
quelli le cui caratteristiche fisiche li rendono più adatti a procurarsi le
risorse necessarie per la vita e a sottrarsi agli attacchi dei predatori (in
termini più moderni potremmo dire: gli individui che possiedono le mutazioni
più adatte allo scopo). Tali individui otterrebbero un vantaggio riproduttivo
propagando il loro patrimonio genetico. Ciò spiegherebbe sia la trasformazione
di una specie in un’altra come adattamento a variate condizioni ambientali, sia
la divergenza delle specie, vale a dire la genesi di due specie da una sola,
che può aver luogo a seguito della segregazione degli individui della stessa
specie in due popolazioni distinte che, come conseguenza, potrebbero evolvere
indipendentemente.
Questo detto, è sommamente
opportuno precisare, prima di ogni riflessione critica in merito, che
l’evoluzione biologica è un dato stabilito dalle attuali conoscenze
scientifiche al di là di ogni ragionevole dubbio. Questa semplice osservazione
preliminare intende mettere al riparo di grossolani equivoci che purtroppo
ancora oggi così spesso confondono il dibattito a questo riguardo. La teoria
evoluzionistica darwiniana non è infatti sinonimo di evoluzione, talché le
possibili critiche alla teoria dello scienziato britannico debbano
necessariamente essere classificate come negazioni dell’evoluzione biologica.
Come ben sappiamo, fin dall’inizio le discussioni attorno alla teoria
darwiniana furono accesissime e ancora oggi non hanno cessato di esserlo.
Soprattutto sono due gli aspetti attorno ai quali ruota il dibattito. Uno, di
carattere generale è il principio secondo il quale il mondo biologico è dotato
di una intrinseca capacità di evolvere, ultimamente governata da dinamiche
puramente immanenti e apparentemente casuali. L’altro, più specifico (che
soprattutto gli inizi incontrò uno sdegnato rifiuto), consegue dagli aspetti
generali della teoria, ed è il concetto che “l’uomo discende dalla scimmia” (in
realtà, si dovrebbe dire più correttamente, che l’uomo discende da specie le
cui caratteristiche fisiche e cognitive erano comparabili a quelle delle
attuali scimmie antropomorfe).
Nell’ambito di varie confessioni
cristiane sorse inizialmente un rifiuto, per delle ragioni ultimamente
sostenute dal concetto che in base alla rivelazione fosse possibile stabilire
anche le modalità di intervento di Dio nel mondo naturale. Se inserita nel
contesto culturale dell’epoca, la reazione di rifiuto era comprensibile, in
quanto la teoria darwiniana introduceva indubbiamente degli elementi di
rottura, soprattutto in relazione all’approccio metodologico su cui si basava
(ma non del tutto quanto ai contenuti, dato che il concetto di evoluzione
biologica è ben più antico di Darwin). D’altra parte, il pensiero materialista
brandì la teoria di Darwin come un’arma per sbaragliare ogni credenza
religiosa, fondando questa pretesa su diverse motivazioni. Da un lato la teoria
(o più propriamente: l’evidenza dell’evoluzione biologica che divenne chiara
con Darwin) dimostrava effettivamente la insostenibilità dell’interpretazione
letterale della Bibbia. Molto di più, la posizione culturale materialista
faceva leva sul concetto che la teoria darwiniana rendeva superfluo il ricorso
a un principio trascendente per giustificare la comparsa del mondo biologico e
soprattutto dell’uomo. In una parola, essa sembrava espungere dal mondo ogni
intervento soprannaturale. Non denominerei darwinismo questa posizione
culturale, ma piuttosto ideologia darwiniana. Non è inutile osservare, a questo
riguardo, che lo stesso Darwin nell’opera sopra citata osservò: “Non vedo
nessuna ragione valida sul fatto che le teorie sostenute in questo volume
possano urtare la sensibilità religiosa di qualcuno” (bisogna anche dire che
nel corso degli anni egli si allontanò progressivamente dalla fede). Se ci si
riflette, le due posizioni culturali sopra delineate (quella dei credenti e
quella dei materialisti), sono basate su errori uguali e contrari, in quanto
entrambe promanano dalla presunzione di poter definire le modalità di
intervento di Dio nel mondo, entrando persino nel merito delle leggi naturali.
Più specificamente, la posizione materialista sembra stabilire in modo molto
perentorio un “a priori” per quanto riguarda ciò che è incompatibile con
l’esistenza di un Creatore benefico e ciò che non lo è. Lo stesso Darwin poco
dopo la pubblicazione della sua opera scriveva, commentando un caso ben noto di
parassitismo nel mondo animale: “Non riesco a persuadermi che un Dio benefico e
onnipotente abbia volutamente creato gli Icneumonidi con l’espressa intenzione
che essi si nutrano entro il corpo vivente dei bruchi”. È evidente che in
qualche senso siffatte posizioni “dettano le condizioni a Dio”, stabilendo in
anticipo quale debba essere la fisionomia di un Ente creatore. Questa stessa
osservazione mette in risalto, a mio avviso in modo conclusivo, che il problema
si situa a un livello metodologico inaccessibile alla conoscenza e al metodo
scientifico in quanto tali: infatti, non potrà essere certo la scienza a
stabilire la natura dell’Ente Creatore.
In ogni caso, basterebbe rifarsi
alla storia del pensiero fino ai nostri giorni, rilevando così che anche tra
gli scienziati si sono sempre annoverati tanto i non credenti quanto i
credenti, mentre quando si tratta di teorie scientifiche, la comunità
scientifica finisce presto o tardi per far proprie quelle indiscutibilmente
avvalorate dalle evidenze sperimentali. Anche solo questa elementare
osservazione rende evidente che in materia di trascendenza il solo approccio
scientifico è intrinsecamente incapace di portare a qualsiasi conclusione. Ciò
nondimeno, non è mancato chi in tempi recentissimi ha asserito letteralmente:
“Le ragioni per non credere non vogliono essere argomentazioni filosofiche
compatibili con o dedotte da conoscenze scientifiche, bensì “ragioni
scientifiche” tout court, perché le scienze naturali sono l’unica sorgente di
conoscenza attendibile sul mondo” (T. Pievani – “La vita inaspettata”, 2011).
Qui è del tutto evidente, a mio parere, il corto circuito logico, laddove
l’asserto principale (“le scienze naturali sono l’unica sorgente di
conoscenza”) è un a priori che non deriva certo dalla sperimentazione
scientifica!
Per quel che riguarda il merito
della teoria darwiniana, non mi è possibile entrare nel dettaglio (è ben chiaro
che ciò richiederebbe uno spazio smisurato). Mi limiterò quindi ad alcune brevi
osservazioni.
Indiscutibilmente, la fortuna
della teoria è legata anche alla sua struttura concettuale apparentemente
semplice, che la rende comprensibile a chiunque, e al contempo la rende
potenzialmente capace di rendere conto di una complessità di fattori; d’altro
canto, il suo successo paradossalmente discende anche dal fatto che è ben
difficile se non proprio impossibile verificarla o falsificarla in senso metodologico,
come invece accade nel caso delle ordinarie teorie scientifiche. Verificabilità
o falsificabilità significa infatti avere a disposizione un sistema
sperimentale sul quale sia possibile intervenire, sottoponendolo a condizioni
definite a piacere dallo sperimentatore, ed effettuare successivamente delle
misure in tali condizioni, valutando infine se i risultati siano in accordo con
la teoria medesima. È evidente che ciò non è attuabile in questo contesto
specifico, e come conseguenza la teoria risulta difficilmente attaccabile sul
piano sperimentale. Detto questo, non sorprendentemente la teoria darwiniana è
soggetta a limiti notevoli, se si pensa a quanto esigue fossero le conoscenze
dell’epoca in materia di biologia: praticamente nulla era noto circa i
meccanismi molecolari di immagazzinamento dell’informazione genetica, della sua
trasmissione e delle funzioni biologiche fondamentali. Senza la pretesa di dare
una elencazione esaustiva, tra i problemi aperti posso citare a titolo
esemplificativo, la difficoltà concettuale nell’immaginare la generazione di
strutture straordinariamente complesse a partire da organismi molto semplici
per graduale accumulo di mutazioni; oppure l’esistenza di strutture corporee
alle quali è virtualmente impossibile assegnare un significato adattativo. Ma
più sostanzialmente, in tempi recenti più voci hanno messo in evidenza
l’ipotesi che il reale propulsore dell’evoluzione non sarebbe la pressione
ambientale ma una dinamica evolutiva interna agli organismi (si veda in particolare
il libro di Jerry Fodor e Massimo Piattelli-Palmarini: “What Darwin got wrong”;
edito in Italia da Feltrinelli). Non voglio entrare in questa sede nel merito
di tali critiche e delle problematiche ad esse correlati: con ciò voglio
semplicemente dire che la teoria di Darwin dovrebbe essere criticabile come
qualsiasi altra teoria scientifica, in una sana dialettica solo tesa ad
approfondire sempre di più la verità. Sembra invece che chi ha l’ardire di
muovere critiche siffatte si renda colpevole di “lesa maestà” (così è stato
anche nel caso del libro citato), e quasi invariabilmente viene gratificato
dell’epiteto di creazionista. Questo clima ancora oggi così “surriscaldato”
lascia chiaramente intendere che uno dei moventi del dibattito sul darwinismo non
sia puramente scientifico, ma chiami in causa una visione complessiva della
realtà.
Per quanto riguarda la seconda
parte della domanda (“Può la teoria di Darwin eventualmente contribuire in
qualche modo alla riflessione teologica-filosofica?”), le riflessioni che ho
riportato sopra mettono in evidenza che la teoria ha di fatto contribuito a
tale riflessione. Non ho gli strumenti per sviluppare in modo dettagliato le
problematiche che sono associate alla domanda postami, in quanto la teologia e
la filosofia non sono il mio ambito di competenza; tuttavia posso dire che a
questo riguardo si osserva una dinamica riscontrabile anche in molti (se non
tutti) gli altri ambiti della conoscenza scientifica. Vale a dire, a seconda
della attitudine personale le reazioni degli scienziati (ma potrei dire anche
di ogni uomo) sono state le più disparate. Questo è evidentemente la
conseguenza della condizione di “penombra” in cui l’uomo si trova nella
conoscenza della realtà. In altre parole, nulla di ciò che conosciamo può
portare a una negazione di una dimensione trascendente, ma al contempo nulla
può costituire una evidenza matematica della sua esistenza. Personalmente
faccio mia la riflessione del fisico britannico Paul Davies, il quale scrisse:
“Noi vogliamo sapere perché le leggi della natura sono quelle che sono, in
particolare perché sono così ingegnose e appropriate da permettere a materia ed
energia di autoorganizzarsi nella maniera sorprendente che ho descritto, una
maniera che suggerisce l’esistenza di uno scopo”. La mia professione mi porta a
investigare i meccanismi che governano il funzionamento delle molecole
proteiche e delle cellule, e io non cesso di stupirmi di come abbiano potuto
svilupparsi dal nulla strutture tanto complesse e al contempo così armonicamente
ordinate alla loro funzione. Ciò nondimeno, l’americano Steven Weinberg, premio
Nobel per la fisica, scrisse: “Quanto più l’universo ci appare comprensibile,
tanto più ci appare senza scopo”. Dunque, la dinamica della libertà, e non
certo la conoscenza scientifica, è il fattore decisivo a questo riguardo».
“Cosa ne pensa di queste giornate
celebrative di Darwin, anche laddove non c’è particolare contrasto alla sua
teoria? Perché, secondo lei, non accade lo stesso per altri celebri uomini di
scienza?”
«La mia risposta a questa domanda sarà in realtà
brevissima, in quanto è nella sostanza già contenuta nelle riflessioni che ho
prodotto nella precedente risposta. Oggi esistono infatti in Occidente (e così
pure in Italia) orientamenti culturali sostenuti da circoli di scienziati e
pensatori che usano della scienza come strumento ideologico per diffondere nel
comune sentire una concezione atea e materialista. Ebbene, il darwinismo (o
meglio l’ideologia darwiniana come ho osservato in precedenza) è una delle
“teste d’ariete” di questa operazione, che fa un uso surrettizio della scienza,
o meglio di un certo modo di presentarla all’opinione pubblica».
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