lunedì 27 febbraio 2012


Matrimonio (breve) all'italiana di Tommaso Scandroglio, 27-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it/

La proposta di legge dell’on. Maurizio Paniz sul "divorzio breve", approvata settimana scorsa dalla Commissione Giustizia della Camera, mira non tanto a rendere più brevi i tempi per chiedere il divorzio, bensì ad accorciare ancor di più la vita all’istituto matrimoniale.

In due articoletti secchi l’onorevole del PdL assesta un colpo letale al matrimonio e alle famiglie perché, in puro spirito libertario, sacrifica sull’altare del libero arbitrio del singolo il bene comune. Cosa prevede questa proposta di legge? Secondo la legge vigente dopo la separazione dei coniugi devono passare almeno tre anni per poter chiedere il divorzio. Fino al 1989 gli anni necessari per richiedere il divorzio erano cinque. Paniz vuole abbassare ulteriormente questo limite portandolo da tre ad un solo anno (eccetto nel caso in cui ci siano figli minori).


Questa soluzione è in contraddizione con tutto il quadro legislativo che disciplina l’istituto del matrimonio e quello del divorzio. Costituzionalmente infatti è il matrimonio ad essere un valore giuridico non il divorzio. L’art. 29 stabilisce che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Non ci consta che vi sia da qualche altra parte nella Costituzione un articolo dove si dica che la Repubblica riconosce anche il divorzio come un valore. Da qui tra l’altro il sospetto più che fondato che la legge n. 898/70 che ha introdotto il divorzio nel nostro Paese sia anti-costituzionale. Ma andiamo oltre.


Perché questo atteggiamento di favore dell’ordinamento giuridico verso il matrimonio? Perché lo Stato deve tutelare ed incoraggiare tutte quelle condotte e fenomeni sociali che accrescono il bene comune e a specchio scoraggiare e in alcuni casi addirittura punire tutte quelle condotte che invece minano il bene collettivo. Ora la famiglia fondata sul matrimonio è il mattone di base attraverso cui si edifica l’intera società. Ecco allora che lo Stato deve favorirla in tutti i modi e proteggerla da quelle scelte che potrebbero disgregarla: in primis la volontà dei coniugi di rompere il patto di comunione di vita.


In quest’ottica il divorzio, introdotto nel 1970 con la legge n. 898, è - seppur solo formalmente – tollerato nel nostro ordinamento giuridico, non è indicato come scelta giuridicamente valida. La decisione di divorziare è considerata dal legislatore, almeno sulla carta, non un’opzione da favorire bensì da scoraggiare. Per la nostra legislazione il divorzio non è una possibile scelta fisiologica degli sposi, da rispettare sempre e comunque, bensì una patologia da evitare il più possibile. Il divorzio è quindi considerato – non tanto nella prassi giuridica bensì sul piano meramente normativo – come extrema ratio e non prima ratio.


Il termine dei tre anni attualmente vigente mira proprio ad obbligare i coniugi a pensarci bene prima di compiere un tale passo definitivo. E’ cosa nota che molti sposi rimangono spesso a vita solo separati e non decidono di divorziare perché sono incerti sulla decisione presa o perché chiedere il divorzio è per loro stessi spegnere qualsiasi speranza futura di rappacificazione.

Questo atteggiamento di protezione giuridica verso il matrimonio e invece di tolleranza nei confronti del divorzio è poi testimoniato da altre norme.


Innanzitutto il nostro ordinamento giuridico considera il matrimonio come un patto di vita che per sua natura giuridica deve durare per sempre: il divorzio è quindi qualificato come un’anomalia giuridica. L’art. 108 del Codice civile infatti dispone che il matrimonio non può essere sottoposto a termine temporale alcuno, né a nessuna condizione. Ciò a voler dire che l’evento che in ipotesi provocherà la fine anche giuridica del matrimonio deve essere accidentale, diremmo quasi imprevedibile, non può essere presente nel momento del consenso perché sarebbe in contraddizione con la natura giuridica dell’istituto stesso.


Questo dato è confortato da un altro: l’art. 143 sempre del Codice Civile prevede come primissimo dovere dei coniugi quello della fedeltà. E la fedeltà o è per sempre o non è fedeltà. La fedeltà a tempo non è tale. In tale prospettiva il divorzio, che contraddice l’obbligo della fedeltà coniugale, è considerato dalla legge un’eccezione giuridica, non una prassi da incoraggiare e rendere più agevole come invece vorrebbe l’on. Paniz.


Anzi lo Stato, rappresentato dalla figura del giudice, deve far di tutto per tentare di rappacificare la coppia che vuole separarsi così come attesta l’art. 707 del Codice di Procedura Civile: "Il presidente [del Tribunale] deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, procurando di conciliarli". Nonostante quest’azione obbligatoria del giudice si risolva quasi sempre nella prassi in una domandina, fatta ad entrambi congiuntamente, del seguente tenore: “Siete sicuri che volete separarvi?” – evidentemente inefficace a far cambiare idea a chicchessia - rimane il fatto giuridico che il favor del nostro ordinamento è a vantaggio della famiglia e non di quelle scelte personali che tendono a comprometterla.


Ma vi sono altre norme che stanno a testimoniare il fatto che il diritto spinge affinchè dopo la separazione i coniugi tornino sui loro passi. Altro che accelerare le pratiche per rompere definitivamente. E’ il caso dell’art. 154 del Codice civile che disciplina l’istituto della riconciliazione e dell’art. 157 c.c. in cui si prevede che per far cessare gli effetti della separazione è sufficiente “un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione […]senza che sia necessario l'intervento del giudice”. Ciò è assai significativo. E’ da sottolineare infatti che per rompere un matrimonio la legge esige un iter burocratico a più fasi, giustamente articolato e assai lungo, ma per far rivivere il rapporto matrimoniale per cui si è chiesta la separazione basta invece un semplice comportamento cosiddetto concludente, senza bolli, timbri nè dichiarazioni ufficiali. La legge perciò compie opera di deterrenza verso i coniugi che vogliono marciare speditamente verso il divorzio e cerca di trattenerli il più possibile facendoli ponderare assai – anche tramite procedure formali e burocratiche – sul passo che stanno compiendo.


La proposta dell’on. Paniz si pone invece in antitesi con lo spirito legislativo in materia di matrimonio e di separazione/divorzio. Paniz scrive nella proposta: “La realtà odierna ci dice che il termine di tre anni, dall’inizio della separazione, per lo scioglimento del matrimonio, non serve in alcun modo come deterrente per la prosecuzione di esperienze di coppia ormai logorate”. Un’affermazione che brilla per mancanza di logica giuridica. Il parlamentare di centro-destra infatti è come se dicesse: dato che il matrimonio sempre più spesso precipita nel burrone dopo tre anni, diamogli una spinta perché ci finisca prima; anticipiamo il naufragio facendo colare a picco una nave già piena di falle.

Occorrerebbe invece dire all’opposto: constatato che i matrimoni falliscono sempre più spesso e il tempo di separazione di tre anni non è un valido deterrente, allora sarebbe il caso non di abbreviare ulteriormente ma semmai di allungare tale termine temporale. Mutatis mutandis in campo penale osserviamo che laddove una sanzione viene giudicata come troppo lieve la si inasprisce ancor di più e non si arriva a dire: “Dato che tre anni di carcere per questo reato non servono come deterrente allora diamogli solo un anno”. Laddove un termine temporale appare inefficace lo si estende, di certo non lo si accorcia.


Il retroterra ideologico di questa proposta è poi evidente. In prima battuta perché il progetto di legge è stato proposto nel lontano maggio del 2008: non mollare l’osso dopo quasi quattro anni la dice lunga su quanto sia considerata importante questa battaglia a favore del divorzio e a detrimento del matrimonio.

In secondo luogo Paniz nel progetto di legge strizza l’occhio anche alle coppie di fatto che, lui dice, sono ancora di fatto e non riconosciute giuridicamente a motivo di una certa “rigidità” del legislatore su questi temi.


Infine è illuminante il seguente passaggio del testo approvato dalla Commissione Giustizia: “La disciplina del divorzio nel nostro Paese appare molto rigida rispetto alle effettive dinamiche sociali e culturali che il legislatore deve saggiamente accompagnare, senza la pretesa di imporre comportamenti nè di intralciare l’autonomia dei soggetti”. Un classico esempio di etica fenomenologica: è la prassi che determina cosa è giusto o sbagliato sotto l’aspetto giuridico, non vi è altra fonte normativa.


Nulla di nuovo sotto il sole: se un comportamento è diffuso significa che è normale, se è normale significa che è buono, se è buono non si vede il perché non renderlo legittimo anche sul piano normativo. Invece l’assetto costituzionale del nostro ordinamento giuridico non funziona proprio così: il legislatore costituzionale per redigere le norme non ha compiuto un sondaggio di opinione, bensì ha indicato alcuni valori di carattere sociale ben precisi a cui i cittadini si possono e a volte debbono ispirarsi. La legge predilige alcuni orientamenti indispensabili per il bene comune rispetto ad altri: non ogni scelta che viene dal basso ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento. Tra le opzioni benedette dalla legge c’è sicuramente la scelta di sposarsi, perché il matrimonio è necessario per costruire una comunità civile di persone. Ecco il motivo per cui, come abbiamo visto, il legislatore vede con sfavore il divorzio, considerato come nemico della società perché nemico del matrimonio. Quindi tutto ciò che intacca il matrimonio intacca inevitabilmente anche il consesso civile. Accelerare i tempi del divorzio comporta automaticamente accelerare i tempi di dissoluzione del tessuto sociale.

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