Il silicone che avvelena le donne nel silenzio di medici e governi di
Naomi Wolf, 20 febbraio 2012, http://27esimaora.corriere.it/
Nel corso della mia vita, mi è
capitato di sentire un’infinità di dichiarazioni al limite della credibilità da
parte delle autorità, ma finora non mi era mai successo di sentire o vedere
qualcosa di così scandaloso come in un programma della Bbc (Newsnight), mandato
in onda il 7 febbraio scorso, al quale ero stata invitata a partecipare.
Venticinque donne avevano accettato di presentarsi in trasmissione per porre
domande a Anne Milton, ministro della Salute britannico, per cercare una
risposta alle loro domande e ai loro timori. Tutte queste donne hanno ricevuto
protesi mammarie al silicone della Pip (Poly Implant Prothèse), ritirate dal
mercato europeo nel 2010, in seguito al rilevamento di elevati tassi di rottura
e la conferma dell’utilizzo, al loro interno, di silicone di qualità inferiore
– silicone industriale e non per uso medico, per intenderci.
A dicembre 2011, il governo
francese ha consigliato la rimozione delle protesi Pip e anche le autorità
sanitarie di altri Paesi hanno adottato queste misure. Ma non la Gran Bretagna.
Le autorità francesi, secondo il consiglio globale dell’Organizzazione mondiale
della sanità, «hanno inoltre scoperto che il gel contenente il silicone di
qualità inferiore si è rivelato un irritante per i tessuti circostanti e, in
caso di perdite, può portare a infiammazione e dolore».
Durante le ricerche per il mio
libro Il mito della bellezza , nel 1991, già leggevo nella stampa medica
specializzata quali fossero i tremendi rischi per la salute causati dalle
protesi mammarie al silicone. Ero rimasta scioccata nell’apprendere che mentre
le riviste femminili facevano grande pubblicità alla moda di rifarsi il seno,
le pubblicazioni mediche – che le donne di certo non leggevano – offrivano ai
chirurghi speciali polizze assicurative per tutelarsi dal rischio di rottura
delle protesi, stimata attorno al 30-70 percento. Gli effetti collaterali erano
tutti elencati: fino al 70 percento degli impianti si sarebbero induriti come
«palle da golf», per poi rompersi, lasciando infiltrare il silicone nei tessuti
circostanti e in altre parti del corpo delle donne, con conseguenze del tutto
sconosciute.
Questi avvertimenti furono
ascoltati negli Stati Uniti e le protesi al silicone vennero vietate nel 1992.
Non così in Gran Bretagna. Oggi le donne inglesi, come le venticinque ospiti
nello studio di Newsnight, si ritrovano a vivere un incubo, non essendo mai
state informate dei pericoli del silicone da nessun organo governativo, anche
quando le cliniche private accumulavano ingenti fortune con l’impianto delle
protesi. E ora, con lo scandalo Pip, il sistema sanitario britannico rischia di
dover accollarsi costi milionari per asportare le protesi difettose e
sottoporre le donne a esami di risonanza magnetica per controllare se vi sono
state rotture o perdite.
In questo contesto, sono rimasta
di sasso quando ho sentito il ministro della Salute rivolgere le seguenti,
testuali parole a uno studio affollato di donne spaventate: «Dagli studi
realizzati si evince che le protesi Pip non sono pericolose».
Non credevo alle mie orecchie,
specie considerando il fatto che il suo ministero doveva aver ricevuto
l’allarme globale lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità che
ribadiva il rischio maggiore di rotture cui andavano incontro le protesi Pip e
la natura irritante del suo gel. A quel punto l’ho informata che la Food and
Drug Administration (Fda) in America le aveva vietate nel 1992, dopo decenni di
ricerche, avvertimenti e cause legali. Il divieto della Fda era durato per 14
anni, per poi essere sollevato nel 2006, dietro pressioni commerciali. A
dispetto di tutto ciò, il ministro Milton ha reiterato la sua affermazione
sconcertante alle donne che chiedevano risposte chiare e convincenti e non solo
la risonanza magnetica o la rimozione delle protesi.
Confesso che a quel punto non
sono riuscita a trattenermi e le ho detto che le possibilità erano due: o
mentiva oppure occupava la poltrona sbagliata. Non è ammissibile che il governo
di Cameron – e il ministro in persona – non sapessero nulla del divieto del
1992 della Fda, che aveva suscitato vasta eco a livello mondiale. Alla luce dei
costi milionari che il governo sta cercando di aggirare, è semplicemente
inconcepibile che un suo ministro non sia stato informato sull’entità del
rischio. I dati sui pericoli per la salute sono inconfutabili: «Provi a
digitare protesi mammarie al silicone rischi per la salute su Google» le ho
suggerito. Basta una sola ricerca per produrre 14 milioni di risultati.
Nel 2011 Saundra Young,
giornalista della Cnn, ha fatto notare che le ditte produttrici Mentor e
Allergan avevano riferito alla Fda di aver perso contatto con molte pazienti
dopo l’impianto delle protesi. Pur avendo assicurato la Fda, come condizione
dell’approvazione dei loro prodotti, che avrebbero monitorato nel corso degli
anni tutte le donne cui erano state impiantate le loro protesi, a distanza di
tempo queste ditte hanno fornito i dati riguardanti solo il 21 percento delle
pazienti. Nel 2009, negli Stati Uniti sono stati effettuati 318.000 impianti di
protesi mammarie e il 70 per cento con protesi al silicone.
Le protesi mammarie introducono nel corpo
delle donne sostanze come alcol denaturato, gomma di nafta, resina epossidica,
cloruro di polivinile, polvere di talco e acetone, oltre al silicone.
Il dottor Edward Melmed, chirurgo
plastico di Dallas, ha riferito alla commissione della Fda nel 2011 che le
protesi sono composte da «sostanze tossiche industriali». «I sintomi sono
reali. Ogni sera ricevo da cinque a sette mail da donne di tutto il mondo che
mi chiedono: “Che cosa devo fare per questi disturbi?”».
Melmed ha riferito alla Fda che
dopo 10 anni dall’impianto, il 50 per cento delle protesi ha subito rotture;
dopo 15 anni, il 72 per cento; e il 94 per cento si rompe entro vent’anni:
«Perché la Fda acconsente che
vengano inserite nel corpo di giovani donne protesi che sicuramente nel giro di
10 anni, e nell’80 percento dei casi, sono soggette a deterioramento o rottura?
Lo permetterebbe per le protesi all’anca? Lo permetterebbe se fossero destinate
a pazienti maschi?».
Il dottor Melmed è diventato una
figura profetica: chirurgo di Dallas che ha impiantato protesi mammarie a
migliaia di donne, nel 2007, quando la Fda ha revocato il divieto imposto nel
1992, ha pubblicato sul Los Angeles Times un articolo intitolato «Le protesi al
silicone restano pericolose».
Avendo utilizzato «le protesi al
silicone sin dal loro esordio, negli anni Sessanta», il dottor Melmed aveva
notato i disturbi più comuni segnalati dalle pazienti nel corso degli anni: «La
maggior parte delle protesi con gel al silicone si indurisce con il passar del
tempo. Si chiama contrazione capsulare. Le donne colpite da contrazione
capsulare si ritrovano con seni deformi e doloranti». Una sua paziente, Helen
S. di 71 anni, riferiva di protesi impiantate 23 anni prima e ormai indurite,
che le causavano notevoli dolori. La risonanza magnetica aveva rivelato che le
protesi si erano rotte e successivamente calcificate: «Quando ho asportato le
protesi, la cavità era piena di silicone liquido e melmoso, il rivestimento
delle protesi era praticamente sparito». Negli ultimi 14 anni, il dottor Melmed
ha asportato le protesi a mille donne e aggiunge: «Non sappiamo ancora con
sicurezza dove finiscono le microparticelle di silicone, io le ho ritrovate nei
linfonodi».
Il dottor Melmed fa notare come
ogni generazione di protesi al silicone viene accolta come migliore e più
sicura e lo stesso è stato con quest’ultima. Stavolta, lo scrive nel 2007, la
Fda consiglia alle donne di sottoporsi a risonanza magnetica per vedere se ci
sono state rotture degli involucri e di sostituire le protesi ogni dieci anni.
«Peccato che le donne diventeranno le cavie da laboratorio per queste protesi»
commenta Melmed, sottolineando che saranno loro, le pazienti, e non i chirurghi,
a dover pagare per i costosi controlli. Altri chirurghi negano categoricamente
qualsiasi nesso tra protesi al silicone e problemi di salute, ma il dottor
Melmed conferma: «Ho visto un numero rilevante di pazienti che lamentavano
sintomi come affaticamento, perdita di memoria a breve termine, dolenzia
muscolare e articolare, eritemi, disturbi del sonno, depressione e perdita di
capelli, che ben presto si risolvono con la rimozione delle protesi».
Gli studi emanati dai produttori
stessi delle protesi avvertono che un quarto delle pazienti potrebbe richiedere
un ulteriore intervento chirurgico nel primo anno dopo l’impianto e molte di
loro rischiano di dover sottoporsi a ripetute correzioni chirurgiche. «Le donne
che chiedono queste protesi devono sapere che vanno incontro a più operazioni
chirurgiche» avverte il dottor Daniel Schultz, direttore del Centro protesi e
rischio radiologico della Fda.
Le donne presenti negli studi
della Bbc di Londra sono rimaste esterrefatte: nessuno aveva mai parlato loro
di questi rischi. E continuavano a ripetersi, comprensibilmente: «Come mai il
governo non ha vigilato? Dove sono i test?». I test, ahimè, non sono stati
effettuati a causa delle pressioni commerciali e finanziarie che hanno
volutamente tenuto le donne all’oscuro dei pericoli che le aspettavano. La vera
beffa non è tanto scoprire che oggi costa meno di 600 dollari, in Gran
Bretagna, farsi rifare il seno con protesi al silicone – un vero affare –
quanto piuttosto che si dovranno spendere dai 3.000 agli 8.000 dollari per
asportarle o per nuovi interventi correttivi nel caso di protesi indurite o
rotte. È proprio la natura difettosa delle protesi – sulla quale le donne non
sono correttamente informate – che garantisce al chirurgo un futuro redditizio
dalla stessa paziente, man mano che le sue protesi si irrigidiscono o si
deteriorano con il passar del tempo.
«Caspita, abbiamo dimenticato di
spiegarle quali potrebbero essere i rischi di queste protesi» è l’approccio più
comune anche negli Stati Uniti. Quando le protesi al silicone sono state
reintrodotte sul mercato nel 2007, la Fda – per placare le ire dell’industria
chimica e della lobby dei chirurghi – ha imposto ai produttori, come condizione
per ottenere l’autorizzazione, l’obbligo di seguire per dieci anni le 80.000
donne che avrebbero ricevuto le loro protesi. Già questo passo era di per sé
scandaloso. Nelle parole del dottor Melmed, a quel tempo la politica del
governo era «impiantate adesso, studiate dopo». In base al tasso di richiesta
delle protesi, nel giro di dieci anni cinque donne americane su cento avranno
questo tipo di protesi inserita nei loro corpi.
Che novità ci sono state da
allora? Sorpresa: le case produttrici non hanno ottemperato all’obbligo di
monitorare le pazienti, troppo indaffarate a batter cassa con la vendita delle
protesi. Ci sono fortissimi interessi nel non compilare questi dati da
sottoporre allo scrutinio del governo; anzi, si può tranquillamente affermare
che le autorità inglesi e americane hanno deciso cinicamente di guardare dall’altra
parte. La reazione della Fda, davanti alla mancata raccolta dei dati clinici da
parte dell’industria manifatturiera, prerequisito indispensabile per
l’autorizzazione governativa, è stata semplicemente di commentare che
rifletterà sulla situazione e non prenderà alcuna misura se non dopo aver
consultato chirurghi – c’è da rabbrividire! – pazienti e «sponsor». Prima che
la Fda si consegnasse per intero nelle mani dei gruppi di interesse, la sua
missione era quella di difendere la salute e la sicurezza dei cittadini, non di
tranquillizzare gli azionisti finanziari.
E così una nuova generazione di
donne non avrà accesso, neppure stavolta, a importantissimi documenti
governativi che confermano la schiacciante evidenza dei problemi di salute
causati dalle protesi al silicone.
Perché sono sempre le donne a
essere trattate da cavie e i loro corpi da topini da laboratorio? Perché, a mio
avviso, sussiste un clima culturale nel quale alle donne non bisogna render
conto di nulla, come il governo britannico ha dimostrato la settimana scorsa in
pubblico, specie se il problema è imputabile alla loro «vanità».
Anne Milton e i suoi colleghi di
governo saranno convinti che le donne sono di due tipi: o proprio stupide o
davvero insignificanti, poiché – alla pari del governo americano – non si
sentono minimamente in obbligo di difenderle contro tutti i poteri e le
pressioni commerciali che lucrano sulla loro salute e incolumità.
© Guardian News & Media 2012
(Traduzione di Rita Baldassarre)
Nessun commento:
Posta un commento