24/2/2012 Noi brava gente? Non è sempre vero di Vladimiro Zagrebelsky, http://www.lastampa.it/
L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e
i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo
le regole internazionali. Italiani brava gente.
La sentenza che i diciassette
giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità
emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la
realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni
civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello
scarto non ci sia mai più.
I fatti oggetto della sentenza vennero
all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero
compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la
sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali.
Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover
iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione,
semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a
riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano.
Semplice, economico e pratico, «poche storie!». Come ricordò il ministro
dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009,
sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili
e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è
poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica.
La Corte europea ha giudicato sul
ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle
modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di
trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di
origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una
«espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in
particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi
del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo
giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi
internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra
questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai
diritti umani delle Nazioni Unite.
La Corte ha innanzitutto
dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e
che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a
trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo
ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad
osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che
le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella
piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni
internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights
Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del
Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in
condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe
stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o
Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che
avevano tentato di lasciare il Paese.
La Corte ha quindi affermato che
l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o
degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il
comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del
trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi
il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno
Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso
meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o
l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte.
La violazione di cui l’Italia è
stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca
ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a
compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era
guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la
legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e
salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi
erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa.
La Corte europea ha anche
ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione
collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione
individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei
motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se
l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di
persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un
migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la
condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla
Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni
esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice.
La sentenza è definitiva. I
principi affermati - non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea -
valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio
d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione
Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto
e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo
italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo
indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte
ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche
irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il
pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non
appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane.
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