Strasburgo: una sentenza pericolosa su preti e sindacati di Massimo
Introvigne, 24-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it/
La Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo di Strasburgo - che non fa capo all’Unione Europea, ma a
un’istituzione diversa e più ampia, il Consiglio d’Europa, il quale comprende
anche i Paesi geograficamente europei che non sono nell’Unione - ha reso
pubbliche le motivazioni di una sentenza che riguarda la Chiesa Ortodossa, ma
che è potenzialmente molto pericolosa per la libertà religiosa.
Nella sentenza Sindicatul
Pastorul cel bun c. Roumanie, resa il 31 gennaio scorso, la Corte - che, per
intenderci, è lo stesso organo giudicante che nella sentenza sul "caso
Lautsi", poi fortunatamente rovesciata in grado di appello, aveva cercato
di vietare i crocifissi nelle scuole italiane - ha preso in esame il caso di un
sindacato di sacerdoti ortodossi in Romania, che le autorità romene hanno
rifiutato di riconoscere per tre motivi. Il primo è che nel diritto del lavoro
romeno i dirigenti, in particolare quelli della funzione pubblica, non sono
autorizzati a creare sindacati, e i preti ortodossi sono assimilati a questa categoria.
Il secondo è che, in una certa misura, l’ordinamento civile della Romania
postcomunista riconosce l’ordinamento canonico della Chiesa Ortodossa, il quale
esclude la possibilità che i preti si organizzino in sindacati. Il terzo è che
il principio di libertà religiosa deve far prevalere la libertà della Chiesa
Ortodossa di organizzarsi come meglio crede rispetto al principio - importante,
ma gerarchicamente inferiore alla libertà di religione - della libertà
sindacale.
I preti sindacalisti romeni hanno
portato il caso di fronte alla Corte di Strasburgo, la quale ha dato loro
ragione. Esaminando i tre punti che hanno fondato il rifiuto romeno di
riconoscere il sindacato, la Corte ha anzitutto ritenuto che l’assimilazione
dei sacerdoti ai dirigenti è controversa e non può essere data per scontata.
Già su questo punto, è lecito sollevare qualche perplessità tecnica. Si tratta
di una specificità del diritto del lavoro romeno su cui la Corte non è
competente a pronunciarsi, salvo il caso di applicazioni palesemente arbitrarie
di una legge nazionale, che qui non sembra essersi verificato. Ma è sul secondo
e sul terzo punto che la Corte si è avviata su una strada estremamente
pericolosa. Quanto ai privilegi della Chiesa Ortodossa riconosciuti
dall’ordinamento romeno, la Corte ha affermato che l’ordine pubblico - che
comprende la libertà di organizzazione sindacale - prevale su ogni specifico
accordo fra lo Stato romeno e qualunque organismo, compreso il Patriarcato
ortodosso. Andando poi palesemente oltre le sue competenze, la Corte dichiara
pure che «lo statuto del Sindacato [dei preti] non conteneva nulla di contrario
alla fede della Chiesa [ortodossa]». Un’affermazione di questo genere
presuppone che la Corte sia competente a conoscere che cos’è o non è contrario
alla fede del Patriarcato di Romania, il che è palesemente assurdo.
Ma è sul punto della libertà
religiosa che la sentenza suscita particolare allarme. I giudici di Strasburgo
affermano che i preti ortodossi romeni ricevono un salario dal Patriarcato:
dunque sono lavoratori dipendenti. E «la relazione fondata su un contratto di
lavoro non può essere “clericalizzata” al punto da sfuggire alle normali regole
del diritto civile». In realtà, è vero il contrario. Il sacerdozio non è un
semplice lavoro come un altro. Chi sceglie di diventare sacerdote sa bene che
questa scelta impone delle rinunce, compresa quella a interagire con il suo
"datore di lavoro" - la Chiesa - secondo i normali parametri del
diritto che si applica a chi lavora in ufficio o in fabbrica. Come ha osservato
Grégor Puppinck, direttore dell’European Centre for Law and Justice, un centro
specializzato nella tutela della libertà religiosa che aveva sottoposto alla
Corte osservazioni scritte a favore della Romania, l’articolo 11 della Convenzione
Europea sui Diritti dell’Uomo a rigore non crea neppure un diritto illimitato
all’esercizio dei diritti dei lavoratori nella forma sindacale consueta.
L’essenziale per l’articolo 11 è che i lavoratori abbiano diritto a esprimere
le loro rivendicazioni in caso di arbitrio, possibilità che anche i sacerdoti
ortodossi romeni possono esercitare con gli strumenti previsti dal loro
ordinamento canonico.
Si tratta - ha aggiunto Puppinck
- di un passo indietro rispetto alla sentenza d’appello nel caso sul crocifisso
in Italia, dov’è stato riconosciuto che non esiste un diritto unico europeo in
materia di religione e che la Corte deve riconoscere le specificità nazionali,
specie nei casi in cui una religione - il cattolicesimo in Italia, ma anche
l’Ortodossia in Romania - dà un contributo particolare all’identità nazionale,
che non può non trovare uno speciale riconoscimento giuridico. A volere essere
maliziosi, si può aggiungere che la Corte - al di là del caso specifico, e
tutto sommato limitato, dei preti ortodossi romeni iscritti a questo sindacato
- ha voluto lanciare un messaggio preciso alla Chiesa Cattolica, alle prese con
analoghe organizzazioni e sindacati, di cui in genere nega la legittimità, in
diversi Paesi europei. Se è così, si tratta di una grave ingerenza nelle
vicende interne delle Chiese cristiane, e di un ulteriore passo sulla strada -
esplicitamente denunciata da Papa Benedetto XVI - di un diritto europeo che,
come vorrebbero la Francia e altri Paesi, considera la libertà religiosa un diritto
individuale ma non un diritto delle comunità e delle Chiese.
La sentenza, naturalmente, apre
problemi pratici di non facile soluzione. Una volta che, in obbedienza alla
sentenza, il sindacato di preti romeno sarà riconosciuto dallo Stato dovrà
essere riconosciuto anche dalla Chiesa Ortodossa? Quest’ultima probabilmente
risponderà di no, con prevedibile nuovo ricorso dei preti sindacalisti a
Strasburgo. Un ginepraio da cui sarà difficile uscire e da cui, insieme con la
libertà religiosa, rischierà di uscire sconfitto il buon senso.
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