«Nessuno parla della buonasanità» di Raffaella Frullone, 28-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it
La malasanità fa sempre notizia.
Se ne è parlato di nuovo la scorso settimana, in relazione allo scandalo del
Pronto Soccorso dell’ospedale romano Umberto I. Casus belli la vicenda di una
donna di 59 anni, finita in coma dopo un trauma cranico e ricoverata per 4
giorni nei locali del reparto di medicina d’urgenza dell’ospedale. Se da
pazienti la vicenda desta indignazione e scandalo, noi abbiamo voluto
interpellare un addetto ai lavori, Carlo Nicora, Direttore generale degli Ospedali
riuniti di Bergamo.
Come è possibile che carenze
strutturali possano portare a lasciare un paziente così grave in un letto così
provvisorio?
Bisogna fare una premessa generale. Un
paziente con una situazione di salute urgente, trasportato al pronto soccorso
di un ospedale, di fatto viene preso in carico e contestualmente vengono
analizzati i suoi bisogni clinico-terapeutico e assistenziali, garantendo
quindi un livello di risposta sicuramente superiore rispetto al territorio.
Pertanto il permanere in pronto soccorso, oggi da intendere in modo più
completo come medicina d’urgenza, non è di per sé un elemento negativo a patto
che terapia ed assistenza siano garantite.
Non conosco se non quanto
riportato dalla stampa rispetto alla vicenda Umberto I di Roma e lascio quindi
ogni commento alle figure individuate per fare chiarezza, ma le carenze
strutturali di per sé sono analizzabili ex ante e quindi conosciute; a questo
punto, stante la delicatezza del pronto soccorso, possono essere messi in capo
soluzioni o ripieghi organizzativi, gestionali, professionali tutti rivolti al
poter offrire la migliore risposta con le risorse disponibili. Purtroppo i
miracoli non sono previsti dal Servizio Sanitario Nazionale...
A fare notizia sono sempre i
singoli episodi, spesso casi limite, ma che cosa significa davvero parlare di
malasanità, quali sono i problemi reali dei nostri ospedali e quali gli elementi necessari per garantire il
circolo virtuoso dovuto ai pazienti?
Statisticamente e forse per logiche di
mercato, gli organi di comunicazione in generale e quindi anche per la sanità
enfatizzano spesso la metà marcia della mela.
Individuare quali sono i problemi
reali dei nostri ospedali non è certamente semplice sia per la presenza di
sistemi sanitari regionali differenti sia per l’eterogeneità degli ospedali a
livello nazionale. Credo sia utile porre l’accento su un aspetto cruciale
quello della responsabilità individuale e aziendale. Non solo nel senso
giuridico del termine, che in sanità tutti enfatizzano, ma soprattutto in
quello personale, cioè nella capacità di mettersi in gioco, di prendersi carico
dei problemi, di trovare risposte efficienti ed efficaci.
Come possono personale medico e
infermieristico lavorare in situazione in cui ci sono gravi carenze gestionali
e strutturali? E’ possibile sopperire? Come?
Per come è formulata la domanda mi viene da
rispondere che tale modalità di lavoro non deve rappresentare la norma ma
eventualmente essere limitata a brevi periodi e per cause non prevedibili o straordinarie, dove
peraltro la disponibilità delle professioni mediche ed infermieristiche si
conferma sempre, rappresentando un aspetto di quella responsabilità di cui
sopra. In alternativa i vari livelli di responsabilità in azienda (direzione
sanitaria, direzione di struttura complessa, direzione infermieristica) hanno
il compito/dovere di affrontare le differenti situazioni trovando soluzioni,
soprattutto evitando il ”non è di mia competenza”.
Quanto conta l’approccio del
medico alla professione? E’ possibile mettere al centro l’uomo anche in
situazioni complesse e che impediscono di esercitare la professione come si
dovrebbe?
Sembra un paradosso ma le
attività dei Pronto Soccorso, se analizzate su lunghi periodi, sono ripetitive
e quindi facilmente interpretabili. A questo punto, con una flessibilità che va
oltre alla routine ma che risponde ad un bisogno sanitario a cui dare risposta
con le risorse a disposizione, è possibile organizzarsi in modo nuovo (turnistica
del personale periodica, riduzione dei
ricoveri programmati in situazione di crisi del PS, ecc).
Qualunque sia la complessità
organizzativa e i problemi che deve risolvere, il rapporto con il paziente non
viene né può essere messo in discussione o sacrificato; a mio parere spesso
questo alibi, se analizzato fino in fondo e in maniera responsabile, è un falso
problema.
Lei dirige una struttura
importante nel Nord Italia, quante storie di buona sanità non vengono
raccontate?
Tante, anzi direi tantissime e
del fatto che restino nascoste me ne dispiaccio personalmente e per tutti i
miei collaboratori. Ci sono esempi non solo di grande eccellenza clinica ma di
grande umanità, capacità di accoglienza e di speranza che non fanno notizia.
Fortunatamente molti pazienti ci testimoniano ogni giorno, con comunicazioni
dirette o tramite le lettere ai giornali, la loro riconoscenza.
E’ possibile che il numero
crescente di denunce di casi di malasanità sia dettato dal mancato rapporto di
fiducia tra medico e paziente? Come è possibile ricostruire questa fiducia?
L’aumento delle denunce riflette un crescente livello
di conflittualità sociale, che stiamo osservando nel mondo occidentale, e che
spesso riduce l’atto medico ad un contratto tra le parti. Non dobbiamo dimenticare
che in questi ultimi anni, in molti ospedali, tantissimo è stato fatto per
migliorare la comunicazione con i pazienti: URP, carta dei servizi, qualità
totale, accreditamento all’eccellenza, indagini di customer, risk management,
codice etico. Personalmente ritengo decisivo ricordare sempre, a me stesso e ai
miei collaboratori, lo scopo del nostro agire quotidiano e cioè dare la miglior
risposta ad un bisogno di salute dei nostri pazienti. Sembra poco, ma cambia
totalmente la prospettiva e questa è un’arma vincente.
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