Avvenire.it,
3 ottobre 2011 - CONTRO IL BOIA - Per la Chiesa il patibolo deve
essere vuoto
Il
rifiuto della pena di morte, da parte della Chiesa, è «chiaro» e
«inequivocabile». Nel riconoscere infatti come «praticamente
inesistenti» oggi «i casi di necessità di soppressione del reo»,
che storicamente si sono verificati, essa nega che una moderna
società organizzata nel diritto possa aver bisogno di ricorrere a
quell’estrema forma di autodifesa.
Don
Mauro Cozzoli, professore di teologia morale nella Pontificia
Università Lateranense e nell’Accademia Alfonsiana, ritorna con
Avvenire sulla questione della posizione della Chiesa cattolica
rispetto alla pena di morte. E, in particolare, sul perché della
formulazione scelta per definirla nel Nuovo Catechismo (Ccc).
Per
qualcuno si tratta di una formula che, ancora, resta ambigua. È
così?
Non
lo è affatto. Il punto è un altro, ed è che l’insegnamento della
Chiesa, sempre attento alle istanze del pensiero e della ragione, non
può rinunciare a comprenderle e formularle. È una questione di
onestà nei confronti dell’intelligenza. È per questo che
l’insegnamento sulla pena di morte non è formulato anzitutto e
solo sul piano fattuale, ma primariamente e irrinunciabilmente sul
piano logico.
In
che modo si è tradotta tale attenzione nel caso di cui parliamo?
Bisogna
partire dal fatto che il Ccc considera la pena di morte entro il
quadro della legittima difesa, che costituisce un principio
ragionevole e rigoroso. Ragionevole per la sua coerenza logica.
Rigoroso perché pone dei paletti d’azione ben precisi e
irriducibili.
In
concreto che significa?
Il
principio è a difesa del piccolo, del debole, dell’inerme dalla
violenza di un aggressore. Difesa che, espletate tutte le possibilità
pacifiche di dissuasione, può compiersi anche in forme coercitive
fisiche e in modo comunque mai eccedente la violenza esercitata
dall’aggressore. A tal proposito va precisato che difendere se
stessi da un aggressore è un diritto, cui si può anche rinunciare.
Difendere un altro invece è un dovere. Al punto che rinunciare a
difenderlo, potendolo fare, configura un peccato di omissione e di
complicità.
Come
si riversa tale principio sul versante della pena di morte?
Entro
questo quadro logico, una comunità sociale e politica,
impossibilitata a difendere con altri mezzi la vita dei suoi membri
da criminali perfettamente identificati e regolarmente condannati,
può farlo attraverso la pena di morte. Non farlo significherebbe
rendersi complice delle angherie, dei soprusi e delle violenze degli
aggressori, tollerando che dei deboli e indifesi vengano violentati,
vessati e soppressi. Se da questa logica di principio, e alla luce di
essa, passiamo alla valutazione di fatto di tutte le pene di morte
comminate ed eseguite oggi nel mondo – almeno di quelle di cui ci
rendono edotti le cronache – dobbiamo riconoscere che nessuna di
esse, in nessun Paese, risponde al principio di legittima difesa. Per
essere più chiari, neppure nell’uccisione di Ben Laden, neppure
nell’esecuzione di Saddam Hussein si possono ravvisare estremi tali
da giustificare quegli esiti. Gli Stati che fanno ricorso alla pena
di morte sono di fatto in grado di difendersi e di difendere i loro
cittadini da tutti i criminali con strumenti penali non-violenti e
incruenti. Le pene capitali da essi inflitte sono da considerarsi
pertanto eticamente abusive e illecite.
Si
può dire, allora, che l’insegnamento della Chiesa, pur
riconoscendo che, nel corso della storia, ragioni sociali, e forse
anche culturali, possono aver giustificato il ricorso alla pena di
morte, oggi esclude che tali casi si possano verificare e, dunque,
essa non è mai giustificabile?
È
esattamente questo l’insegnamento del Ccc, al duplice livello di
principio e di fatto. Infatti al numero 2267, a livello di principio,
leggiamo che «l’insegnamento tradizionale della Chiesa non
esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando
questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente
dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani», cosa che nel
passato ha potuto valere anche per il tirannicidio. Nel contempo, a
livello di fatto, considerando le possibilità difensive legali e
strumentali degli Stati, è detto che «oggi, a seguito delle
possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il
crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso… i casi di
assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se
non addirittura praticamente inesistenti», secondo quanto affermato
dall’Enciclica Evangelium vitae (56) di Giovanni Paolo II. Così la
Chiesa dà prova insieme di grande rigore logico e di attenzione
vigile alla concretezza del reale e della storia.
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