Avvenire.it, 19 ottobre 2011 - LA SENTENZA IN LUSSEMBURGO - La giurista
Tallacchini: «Non è uno stop allo studio ma agli alti profitti sulla vita»
«Dal punto di vista giuridico, la
sentenza della Corte di Giustizia europea non è sorprendente». Ma la
riflessione più interessante, secondo Mariachiara Tallacchini, docente di
Filosofia del diritto e di Scienza, tecnologia e diritto alla facoltà di Giurisprudenza
dell’Università Cattolica di Piacenza, riguarda il ruolo del brevetto nella
ricerca scientifica. «I giudici – osserva Tallacchini – non hanno fatto altro
che applicare l’articolo 6 della Direttiva europea 44/98 sulla brevettabilità
delle invenzioni biotecnologiche, secondo cui “non sono brevettabili le
utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”. Nella
sentenza non vengono fatti richiami etici estranei alla legge. Anche l’Ufficio
europeo dei brevetti molto raramente fa ricorso alla clausola morale».
«Peraltro, poiché la Direttiva
non definisce il termine embrione, i giudici non hanno ritenuto che spettasse
loro inserire una distinzione tra precursori dell’embrione ed embrione, che può
essere fatta solo dal legislatore». Tutt’al più – osserva ancora la giurista –
si porrà un problema di armonizzazione con il Regolamento europeo 1394 del 2007
sulle terapie cellulari avanzate: «Quel testo dice che possono ottenere
l’autorizzazione alla commercializzazione dall’Agenzia europea dei medicinali
(Ema) tutte le terapie avanzate, anche qualora contengano cellule o tessuti
embrionali. Il Regolamento sollevò polemiche perché parve aprire una crepa
nell’armonizzazione della legislazione europea – proprio perché la Direttiva
sui brevetti aveva vietato quelli basate su materiali embrionali».
Qualcuno lamenta che si pongono
ostacoli alla ricerca scientifica. «La sentenza – obietta Tallacchini – non si
occupa di vietare né la ricerca né la commercializzazione. Dice solo che non si
può ottenere rispetto agli embrioni quella particolare forma di tutela
giuridica e di esclusiva economica rappresentata dal brevetto – cioè forme di
protezione che garantiscono un elevato profitto. Per esempio nel settore della
brevettabilità delle sequenze genetiche, c’è forte polemica sull’uso dei
brevetti, che sono giudicati un ostacolo alla ricerca: basta pensare a quelli
sui geni Brca1 e Brca2 – correlati all’insorgenza di tumori al seno – che sono
stati oggetto di sentenze contrastanti in Europa e negli Stati Uniti. Allora:
perché i brevetti dovrebbero essere strumento di libertà quando si tratta della
ricerca sulle cellule embrionali e ostacolo all’innovazione quando si tratta di
sequenze genetiche? Capisco che grandi investimenti nella ricerca trovino una
forte motivazione in alti ritorni economici. Ma è possibile cominciare a
ripensare il settore dell’innovazione nella ricerca biomedica all’insegna del
sociale e del low-profit?».
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