Ecologismo? L'opposto della visione cristiana di Fabio Spina, 01-10-2011,
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Durante il ricco e profondo
discorso fatto da Benedetto XVI al Bundestag, a Berlino il 22 settembre 2011,
in una parte il Papa ha fatto cenno ai benefici che ha portato negli anni ’70
la nascita del “partito dei Verdi” in Germania; tanto è bastato per far dire a
molti commentatori che si era in presenza di una svolta verde/ecologista della
Chiesa.
Le parole di Benedetto XVI al
riguardo esattamente sono state: “Direi che la comparsa del movimento ecologico
nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse
spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria
fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede
troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti
con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un
materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria
dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio
propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di
questo. […] L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare
il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare
con forza ancora un punto che oggi come ieri viene largamente trascurato:
esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve
rispettare e che non può manipolare a piacere.”.
Ma prima di quest’ipotetica
svolta verde cosa scriveva il Papa negli anni ’70? In occasione dell’inaugurazione
della famosa e storica Conferenza di Stoccolma del 1972, quella da cui nacque
il Programma ONU per l’ambiente (UNEP) ed in ricordo della quale ogni anno il 5
giugno si festeggia la “giornata mondiale per l’ambiente”, Papa Paolo VI inviò
un messaggio nel quale era scritto: ”L’Uomo e il suo ambiente sono più che mai
indissolubili. L’ambiente costituisce il condizionamento fondamentale della
vita e dello sviluppo dell’uomo. Questi a sua volta perfeziona e raffina
l’ambiente mediante la sua presenza, il suo lavoro e la sua contemplazione.
Tuttavia le capacità creative dell’uomo daranno frutti autentici solo allorché
l’uomo rispetterà le leggi che governano la vita e il potere rigeneratore della
natura. Così l’uomo e la natura sono legati a vicenda e costretti a condividere
la comune sorte terrena”.
Cosa è cambiato nella “visione
dell’ambiente” in questi quaranta anni? Fino ad alcuni decenni fa le cose erano
semplici: si sapeva che andava affrontato il problema dello smaltimento dei
rifiuti, delle piogge acide, dello smog, della diossina, delle buste di
plastica, del DDT, non si era “consumisti” perché non c’erano cose in
abbondanza da consumare, il maltempo o la siccità potevano essere causati al
massimo da una divinità ma mai dall’uomo, sui prati si poneva l’attenzione ai
colori dei fiori e non alle siringhe, ma soprattutto: tutto ciò che era un
prodotto naturale non inquinava. Anzi si era fermamente convinti che la panacea
di tutti i mali fossero i processi produttivi “biodegradabili”; processi in grado
di dare come prodotti finali solo “scorie” naturali, che potevano essere
inserite senza danni nei cicli dell’ecosistema (un esempio era la pubblicità
del detersivo fatta con l’uomo in ammollo). Ora invece le mucche ed i ruminanti
inquinano in quanto respirando emettono metano; ma anche l’uomo, gli animali e
le piante inquinano “respirando” in quanto emettono anidride carbonica.
Dell’automobile il problema non sembra più lo smaltimento della batteria, della
plastica, degli acidi, ma si parla quasi sempre e solo dell’anidride carbonica.
Metano ed anidride carbonica che sono
composti fino a poco tempo fa ritenuti naturali, perché da sempre presenti
sulla terra, sono gli inquinanti a cui si è portati a fare più attenzione e che
la cui emissione angoscia di più.
E’ nato così un nuovo tipo di
problema, da non sottovalutare, dovuto all’introduzione nell’ambiente di
materiali naturali o “biodegradabili”, che generalmente viene indicato sempre
con la stessa parola:“inquinamento” (generando così in taluni casi della
confusione). Le attività umane hanno sempre un impatto sull’ambiente
circostante, un impatto che sicuramente va limitato ma che non può essere zero
(come sarebbe indispensabile per i veri inquinamenti) in quanto ciò non
significherebbe altro che la scomparsa dell’essere umano dalla Terra. Inoltre
non è detto che l’impatto zero sia un bene per lo stesso ambiente: la cultura
contadina sapeva che la natura senza l’uomo degrada: un bosco abbandonato si
ammala prima e s’incendia con maggiore facilità, il vigneto abbandonato non
produce, sull’orto non lavorato prende il sopravvento l’erbaccia, i canali di
scolo non puliti con il tempo creano la palude e la malaria.
Un primo caso di impatto
dell’attività umana a grande scala è stata l’agricoltura che, pur cambiando in
modo sensibile la superficie terrestre (quindi il bilancio radiativo
dell’atmosfera) e distorcendo gli equilibri naturali a favore dell’uomo, a
nessuno mai in passato era venuto in mente di definirla inquinamento. Solo a
questo secondo tipo d’inquinamento, l’impatto, può essere applicato il
principio “chi inquina paga” su cui si basa ad esempio il Protocollo di Kyoto,
gli ecopass, elettrosmog, etc., non sarebbe possibile farlo per inquinamenti
tossici dovuti a sostanze naturali/artificiali veramente inquinanti come
l’arsenico, mercurio, amianto o artificiali come la diossina.
Negli anni ’70 il partito dei
verdi nasceva per combattere il primo tipo d’inquinamento, nel corso degli anni
invece è divenuta generalmente prevalente l’attenzione al secondo. Per
combattere quest’ultimo l’azione politica ecologista si è basata su due
principi cardine impensabili per l’inquinamento di “tipo tradizionale”: il
“principio di precauzione”(PdP) e “chi inquina paga”.
“Chi inquina paga” è
diseducativo: se uno inquina veramente deve smettere e va sanzionato, non ha
senso continuare pagando altrimenti non
sarebbe altro che una ulteriore discriminazione per censo. Spesso tale
principio non si riduce ad altro che fare le stesse cose che si facevano prima
pagando una ulteriore tassa, più gradita delle altre perché si dice che aiuta
il pianeta.
Il “principio di precauzione”
(Art.15 della Dichiarazione di Rio del 1992) afferma che “Ove vi siano minacce
di danno grave o irreversibile, l’assenza di certezze scientifiche non deve
servire come pretesto per posporre l’adozione di misure, anche non a costo
zero, volte a prevenire il degrado ambientale”. Forse sarebbe stato meglio
tener conto che ogni azione umana comporta un rischio, anche il rimanere a
casa, quindi applicando bovinamente il PdP ogni attività può essere bloccata a
fin di bene e per aumentare la sicurezza. Applicando il PdP nel 1997 si è
firmato il Protocollo di Kyoto, non sulla base di evidenze scientifiche.
Senza accorgersene ed in modo
latente il PdP ha sostituito la millenaria virtù della Prudenza. Il PdP valuta
solo i rischi del fare, la prudenza nella scelta dell’azione da intraprendere
metteva a confronto i rischi del fare con quelli del non fare. Infatti in
Morale esiste la prudenza/saggezza nell’agire, che corrisponde a minimizzare i
rischi e ad affrontarli valutandoli insieme i benefici. Le precauzioni invece
non sono altro che dispositivi per ridurre il rischio mentre si opera, ad
esempio l'air-bag in auto.
Ricordava Papa Giovanni Paolo II
nell’Udienza Generale del Mercoledì, 25 ottobre 1978: “L’uomo prudente, che si
adopera per tutto ciò che è veramente buono, si sforza di misurare ogni cosa,
ogni situazione e tutto il suo operare secondo il metro del bene morale”. La
prudenza non può divenire una scusa per non fare ciò che è giusto e possibile,
la ragione deve essere stabilmente orientata al vero bene ed è necessario che
abbia la capacità, l’attitudine a scegliere mezzi opportuni (il “giusto” mezzo)
e concretamente disponibili nella situazione per raggiungere il fine stesso. La
prudenza si manifesta nel comando della ragion pratica che dice: questo è
buono, questo va fatto qui ed adesso (il saggio o prudente è colui che fa, non
basta il giudizio). L’azione va giudicata nello specifico, il fine ed i relativi
rischi debbono essere valutati nel complesso e non solo se il rischio è
assente: la prudenza mi fa evitare gli inutili rischi e non i rischi in
generale (ciò vorrebbe dire la totale immobilità). Le precauzioni riducono il
rischio anche se non sarà mai possibile eliminarlo del tutto, quando esiste
un’incertezza scientifica questa deve essere una spinta a nuove ricerche e non
all’abbandono o peggio proibizione delle stesse. La prudenza non corrisponde
all’assenza o rimozione del coraggio, ma ne è il fondamento affinché non si
trasformi in azzardo.
Così la prudenza costituisce la
chiave per la realizzazione del fondamentale compito che ognuno di noi ha
ricevuto da Dio: la perfezione dell’uomo stesso. Dio ha dato a ognuno di noi la
sua umanità.
“La Chiesa cattolica si avvicina
al problema della protezione dell’ambiente dal punto di vista della persona
umana. È nostra convinzione, quindi, che ogni programma ecologico debba
rispettare la piena dignità e libertà di chiunque possa essere fatto oggetto di
tali programmi. I problemi ambientali dovrebbero essere visti in relazione alle
necessità di uomini e donne concreti, delle loro famiglie, dei loro valori,
delle loro inestimabili eredità sociali e culturali. Perché lo scopo ultimo dei
programmi ambientali è di elevare la qualità della vita umana, di mettere nel
miglior modo possibile il creato al servizio dell’umana famiglia” predicava il
Beato Giovanni Paolo II nel 1985. E' una radicata visione cristiana che ha poco
o nulla a che fare con la maggior parte
delle attuali ideologie verdi, che non propongono “di vedere” il sistema Terra
come Casa dell’uomo; anzi, quest’ultimo è sempre e solo un disturbo da
eliminare, specie quando mette al mondo figli e non è produttivo.
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