L’infinita ricerca dell’infinito per trovare un senso alla vita di
Vittorio Macioce, sabato 01 ottobre 2011, Il Giornale
Nel saggio dello scrittore
statunitense, la matematica riflette il disperato bisogno di regole universali
che trascendano l’uomo
L’infinito ci perseguita. Questo
concetto ritorna nelle lettere che Don De Lillo e David Foster Wallace si sono
scritti a intervalli più o meno regolari nei primi anni di questo secolo.
L’interruzione è avvenuta perché a un certo punto Wallace ha detto basta. Non
con De Lillo ma con la vita. Non si sa quasi nulla di questo scambio
epistolare. Solo che i due, il patriarca postmoderno ormai settantaciquenne e
quel diamante pazzo con la bandana in testa, sentono che il romanzo non può
sottrarsi alle stesse sfide delle matematica e della fisica.
Non c’è via d’uscita, per due
motivi semplici ma drammaticamente profondi. Il primo estetico. Tutti e due
sono convinti che il linguaggio dei numeri ha una poesia e una creatività
superiore a quello delle parole. È quel vecchio problema dell’inesprimibile,
una sorta di afasia che ti fa sentire il linguaggio, vuoto, inutile, o
semplicemente non adeguato per raccontare la vita e il mondo. Qualcosa che ti
fa sentire stupido. Wallace pensava che la matematica fosse sexy e trovava
molto triste che le persone «normali» non potessero di solito gustare la
bellezza artistica dell’astrazione. Wallace ci prova a raccontare al suo
pubblico la seduzione della matematica. Lo fa in Tutto, e di più. Storia
compatta dell’Infinito (Codice, pagg. 262). Questo libro, che può essere
considerato un saggio-romanzo che parte dalla matematica di Georg Cantor e la
sua teoria sugli insiemi e ti porta ai confini pensabili dell’infinito, è
uscito per la prima volta in Italia nel 2005, ora torna con una nuova
traduzione. Per capirsi Tutto, e di più può essere considerato il lato B di
Infinite Jest, il romanzo capolavoro di Wallace. De Lillo stranamente parla di
Tutto, e di più nella prefazione di Questa è l’acqua (Einaudi), un altro
romanzo di DFW. E scrive: «Tutto, e di più potrebbe anche essere la descrizione
del romanzo Infinite Jest, una serissima beffa sulle forme di dipendenza
dell’umanità. Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e i suoi saggi come
stralci di rotoli da un lontano futuro». In quei rotoli ci sono solo frammenti
dell’enigma dell’umanità e forse una grande solitudine che ci fa attaccare a
tutti i nostri vizi e alle nostre paure. Noi rispondiamo al «non so»
rifugiandosi nella dipendenza, come burattini innamorati del proprio filo. L’effetto
è comico.
Se in Infinite Jest Wallace narra
un mondo dominato da un caos apparente, nel suo libro matematico mostra il
cosmos, tutto quello che insomma nel romanzo sfugge agli occhi dei
protagonisti. Non perché sono ciechi ma perché non hanno una teoria per
interpretare il reale. E qui arriviamo alla seconda questione che destabilizza
Wallace e De Lillo. Tutti e due cercano disperatamente di fare i conti con
l’identità. È un «non so chi sono» metafisico e resta la colonna sonora dei
loro romanzi. È una voglia disperata di infinito che li porta a ragionare sul
malessere della dipendenza, del rifugiarsi in qualcosa di umano che non basta,
sulla difficoltà di concepire l’individuo come qualcosa di irrilevante, fino ad
arrendersi all’evidenza dei fatti, questo almeno fino a quando non verrà
risolta l’equazione del tutto. È quel qualcosa che manca che li ossessione, lo
spazio bianco che rende incomprensibile le vicende che stanno narrando. Ma il
segreto delle loro storie è proprio lì, nel non detto.
È l’enigma anche delle nostre
storie, quelle che trovate nei giornali di questi giorni. Immaginate un
neutrino che va da A a B. Scoprite, come è successo, che compie questo tragitto
in un tempo più veloce della luce. Non sapete assolutamente perché. Facciamo qualche
ipotesi. È assurdo, ma davvero è più veloce della luce. Oppure il cronometrista
ha sbagliato a prendere il tempo. O ancora il neutrino è saltato in una
dimensione parallela prendendo una sorta di scorciatoia e aprendo infinite
possibilità alla nostra concezione di universo, tempo, luogo e in fin dei conti
anche di uomo. Lo spazio bianco sul viaggio del neutrino è il senso profondo di
gran parte della letteratura post moderna. Noi siamo quello che non sappiamo.
È lo stesso Wallace a rivelare
durante un’intervista a Michel Silverblatt che Infinite Jest ricorda un
frattale: «È proprio una delle cose su cui si basa il romanzo. È in effetti
strutturato come una cosa che si chiama triangolo di Sierpinski, un tipo
primitivo di frattale piramidale». Che cos’è? Lasciamo a un matematico, Roberto
Natalini, la risposta: «Si parte con un triangolo equilatero e si elimina il
triangolo centrale con i vertici posti sul punto medio di ogni lato. Questo ci
lascia con tre triangoli pieni e uno vuoto. Per ognuno dei triangoli pieni si
ripete questa operazione. Il triangolo di Sierpinski è il limite di questa
procedura ripetuta un numero infinito di volte. In Infinite Jest compare a
pagina 254, sul muro della camera del protagonista Hal, dove c’è ne è uno
enorme disegnato a mano». Tutto quello che non avete capito di Foster Wallace è
nello spazio bianco all’interno del triangolo. Aveva ragione Borges nel
Giardino dei sentieri che si biforcano: «In un indovinello sulla scacchiera
qual è l’unica parola proibita? La scacchiera».
© IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
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