mercoledì 1 febbraio 2012


01/02/2012 - ANTROPOLOGIA. "POCO SPIRITOSI, MA EMPATICI, ERANO GRANDI CACCIATORI. MA MANCAVANO DI DUE DOTI DEL NOSTRO CERVELLO" - Ecco i pensieri dei Neanderthal - Due studiosi ricostruiscono la mente degli ominidi più affascinanti di GABRIELE BECCARIA, http://www3.lastampa.it


Un Neanderthal entra in un bar e dice... Beh, non granché, probabilmente».

L’antropologo Thomas Wynn e lo psicologo Frederick Coolidge (University of Colorado) hanno sfruttato l’attrazione collettiva per l’unica specie che ha conteso il dominio dell’Europa a noi Sapiens, tentando un esperimento funambolico: non solo ricostruire la vita dei Neanderthal, ma entrare nella loro testa e vagare tra i loro arcaici pensieri.

Erano bonari o aggressivi? Si innamoravano? Quanto erano astuti? E creativi? Sognavano nei rari momenti di riposo? E, soprattutto, avrebbero apprezzato la nostra propensione allo humor e alle imitazioni, agli scherzi da caserma e ai giochi di parole?

Wynn e Coolidge sono così sicuri di se stessi e della possibilità di decifrare il groviglio di dati raccolti su questi remoti parenti da sfidare gli scettici. Lo raccontano nel saggio «How to think like a Neandertal» (senza h, perché l’ultimo trend prevede di abolirla). A cominciare dal paradosso temporale del Neanderthal che entra in un bar. Se alla battuta di un avventore non avrebbe saputo stare al gioco, avrebbe invece sghignazzato come un bambino di fronte a due ubriachi traballanti. Non certo il bruto di cui si favoleggiava fino a qualche decennio fa, semmai un semplicione di poche parole, al quale dovevano fare difetto due abilità cognitive della nostra mente affilata: la capacità di smascherare al volo i comportamenti ingannevoli e quella nota come «market pricing», l’istinto di valutare la differenza qualitativa tra due oggetti simili.

Ma la grama esistenza, tra 40 e 30 mila anni fa, quando noi e loro ci siamo inoltrati nelle stesse tundre gelide, era tremendamente più impegnativa di una banale sfida da bar. Per quanto possano apparire creature imperfette, i Neanderthal - sottolineano Wynn e Coolidge - incarnavano un modello biologico così ben collaudato che l’evoluzione l’ha replicato per 170 mila anni, generando una discendenza agguerrita. I nostri «alter ego» avevano imparato a cacciare grandi mammiferi come i mammuth, si erano inventati un linguaggio, erano riusciti a produrre strumenti che ancora oggi stupiscono. Il capolavoro è la lancia: non solo la punta in pietra era scheggiata con tale perizia da squarciare le carni delle prede, ma veniva incollata a un’asta di legno con una specie di colla a base di bitume. Chiunque provi oggi a replicarla si troverà tra le mani un rompicapo da togliere il sonno.

Non sapremo mai quanta geniale casualità e quanti sforzi intellettuali collettivi siano stati necessari per approdare a questo prodigio tecnologico, ma a stupire gli studiosi - raccontano Wynn e Coolidge - è il fatto che, una volta realizzato, nessuno abbia tentato di fare altri passi avanti, migliorandolo. E nemmeno di copiare le asce e le frecce dei Sapiens. Ecco un altro deficit della mente neanderthaliana: il tradizionalismo. L’innovazione che tanto ci eccita non era apprezzata. Un neuroscienziato direbbe che nelle scatole craniche lavorava una «memoria procedurale», mentre sonnecchiava quella «operativa».

E infatti - rivelano i reperti i cugini ancestrali trascorrevano la vita in piccoli gruppi, di 5-10 individui, e si spostavano su territori limitati, non oltre il migliaio di km quadrati. Sospettosi e xenofobi, erano allo stesso tempo empatici e pragmatici. Coltivavano la famiglia e aiutavano i compagni in difficoltà. Dai traumi degli scheletri si deduce che sperimentassero avventure da rodeo: chi si spezzava un braccio o si fratturava una costola poteva contare sulla solidarietà della microtribù, ma chi si feriva a una gamba sapeva di non avere chances. Non riuscire a camminare significava essere abbandonati al proprio destino.

Quelle menti erano increspate da fremiti di sensibilità e da refoli di pensiero simbolico. Sebbene non si siano trovate pitture parietali (l’arte in cui i Sapiens avrebbero dimostrato di eccellere), i neanderthaliani si decoravano il corpo di piume e se lo dipingevano con pigmenti colorati. Suonavano (forse) flauti d’osso e seppellivano i morti, anche se è controverso che lasciassero fiori sui cadaveri. Quanto al fatto che credessero o no a un oltretomba, non c’è risposta.

L’attenzione, perlopiù, era rivolta alla brutalità del qui e ora. Oltre che dogmatici, gli avversari degli umani erano degli stoici, capaci di sopportare privazioni e dolori per noi inaccettabili. Di rado superavano i 35 anni e in genere non più di due generazioni vivevano assieme. Il limite deve aver compromesso le possibilità di progresso materiale e intellettuale, forgiando caratteri introversi e scarsamente curiosi.

Piccoletti ma muscolosi, spesso biondi e rossi, secondo Svante Pääbo del Max Planck Institute condividevano con noi il 99,8% del Dna. Non solo si sono incrociati con i Sapiens, ma - sostiene Peter Parham della Stanford University - ci hanno regalato l’immunità da alcune malattie. L’ultimo grande mistero resta la loro scomparsa. L’ipotesi più inquietante è quella di Jared Diamond: li abbiamo sterminati noi, applicando il primo paleogenocidio. Così riuscito da prenderci gusto.

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