03/10/2011 - IL CASO - E' nel cervello la prova che l'effetto placebo
funziona, di Marco Accossato, http://www3.lastampa.it
Un sondaggio su 600 medici rivela
che quasi la metà raccomanderebbe la "terapia" dell’effetto placebo
Il meccanismo efficace contro
dolore e infiammazioni
MARCO ACCOSSATO
TORINO
L’ effetto placebo esiste, e vale
non solo per la lotta al dolore, ma anche per combattere le malattie
infiammatorie. Uno studio lungo due anni compiuto dal dipartimento di
Neuroscienze dell’Università di Torino, e pubblicato oggi su «Nature Medicine»,
dimostra che sia gli antidolorifici sia gli anti-infiammatori creano nel nostro
cervello un’impronta. E’ quell’impronta è in grado di attivare gli stessi
effetti della cura solo al pensiero di aver preso il farmaco. Anche quando il
farmaco, in realtà, è una sostanza inerte, cioè nulla.
Quando un malato crede nella
terapia, quando ha fiducia nel proprio medico e si aspetta - grazie a lui - un
miglioramento clinico, il suo cervello rilascia endorfine (una sostanza simile
alla morfina) se si tratta di contrastare il dolore, ma anche endo-cannabinoidi
(simili alla cannabis presente nella marijuana) se il problema è invece
un’infiammazione da combattere.
Coordinatore di questo studio
destinato a riaprire il dibattito fra scienziati, e sicuramente anche un
confronto fra gli scettici del placebo, è il professor Fabrizio Benedetti,
docente di Fisiologia all’Università di Torino e consultant al National
Institute of Health a Bethesda e alla Mind Brain Behavior Initiative della Harvard
University.
Al momento non si sa,
esattamente, in che cosa consista questa «impronta», né dove si accenda
l’interruttore della memoria farmacologica all’interno del sistema nervoso. Ma
lo studio ha dimostrato che il placebo anti-dolore, come quello anti-infiammatorio,
attivano gli stessi recettori ai quali si legano i farmaci specifici, e innesca
quindi la medesima procedura della terapia. Quali sostanze si attivano durante
l'effetto placebo (endorfine oppure endocannabinoidi) dipende ovviamente da quali
farmaci il paziente ha assunto in precedenza. Cioè dal tipo di memoria che si è
creata.
Lo studio è stato compiuto
sull’uomo, tra pazienti volontari. Per un certo periodo sono stati
somministrati farmaci veri, ottenendo miglioramenti. Poi si è passati - ovviamente
all’insaputa dei volontari - alla sostanza placebo. In tutti i casi è scattato
in loro il condizionamento: la persona che ha imparato ad associare
l’assunzione di una compressa con una determinata forma e un certo colore alla
scomparsa di un sintomo, ottiene lo stesso beneficio anche quando all’interno
della compressa - stessa forma, stesso colore - non è contenuto alcun principio
attivo, ma il placebo.
Studi precedenti hanno già
dimostrato che in questo effetto-memoria a livello cerebrale ha un ruolo
fondamentale il rapporto con il medico: soltanto se lo specialista è in grado
di convincere il paziente che il farmaco (vero) che sta assumendo lo farà stare
meglio, il placebo che prenderà avrà il medesimo risultato della terapia. Cioè
attivare ogni volta i recettori delle endorfine contro il dolore o degli
endocannabinoidi contro le malattie infiammatorie.
Il professor Benedetti dedica da
anni gran parte della propria attività di ricerca agli studi sull’effetto
placebo. Quanto ha scoperto insieme ai ricercatori dell’Università di Torino è
dimostrato in un arco di tempo relativamente breve. Il che è un presupposto non
sufficiente per poter sostenere che lo stesso risultato vale anche a distanza
di anni, per malati cronici: «Al momento non possiamo dire ai medici o agli
ospedali di sostituire i farmaci con le sostanze inerti che innescano l’effetto
placebo perché non c’è dimostrazione scientifica del meccanismo a distanza di
anni. Sicuramente, però, possiamo dire che si può ridurre l’uso dei medicinali,
alternando farmaci a placebo, soprattutto quando i farmaci possono creare
importanti effetti collaterali».
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