EUTANASIA/ Quella sentenza inglese che va contro le semplificazioni
ideologiche - INT. Francesco D'Agostino, il sussidiario.it, mercoledì 5 ottobre
2011
Per la prima volta un giudice
dell'Alta Corte inglese esprime una sentenza relativa a un caso di richiesta di
interruzione dell'alimentazione e delle cure relativo a un paziente in stato
vegetativo. Il parere del giudice è che il paziente venga lasciato in vita e
che anzi ci si prodighi per migliorarne ulteriormente le condizioni. E' il caso
che ha visto coinvolto il giudice Justice Baker, che di fronte alla richiesta
dei familiari di una donna di 52 anni, colpita in seguito a una infezione da
danni cerebrali sin dal 2003, ha disposto una indagine dalla quale ha tratto le
motivazioni che, seppur assai flebili, la donna mostra segni vitali. Un caso
destinato a far scalpore. "La sentenza è talmente ragionevole e
condivisibile" commenta il Professor Francesco D'Agostino, docente di
filosofia del diritto e Presidente dell'Unione giuristi cattolici a
IlSussidiario.net "che c'è poco da commentare: gli stati vegetativi sono
un enigma, è difficile prevedere come possano evolvere in alcuni casi. A volte,
sono situazione rare ma ci sono, possono essere reversibili. E' comprensibile
che di fronte a una richiesta di vera e propria eutanasia magari con la
sospensione del' alimentazione il medico e in questo caso il giudice dicano che
invece il dovere è il contrario, cioè alimentare e praticare tutte le possibili
terapie che in altri casi hanno giovato ad altri malati nella stessa
situazione".
Professore, un caso senza
precedenti in Inghilterra, dove comunque l'eutanasia è illegale. Come mai
allora tanto scalpore?
Nel Regno Unito è illegale
l'eutanasia intenzionale ed attiva. In questo senso non meraviglia che un
magistrato abbia detto che non si può uccidere un paziente neanche in
situazioni così estreme. Questo dovrebbe chiudere il discorso se non fosse che
da un po' di tempo arrivano notizie dall'Inghilterra secondo le quali pratiche
di eutanasia analoghe a questo caso non vengono perseguite dai magistrati.
C'è da dire che in Inghilterra il
Common Law non prevede, a differenza del diritto italiano, l'obbligo
dell'azione penale. Essa è affidata alla discrezionalità del giudice di
ritenere ci sia un evento così rilevante da portare all'imputazione.
Come diceva lei però è un dato di
fatto che la magistratura inglese applica una certa tolleranza a questo tipo di
situazioni.
Esattamente, ma c'è da dire anche
dell'altro. Siamo davanti a una realtà davvero intricata perché si continua
sistematicamente a confondere la rinuncia all'accanimento terapeutico con
l'eutanasia vera e propria. Purtroppo questa confusione dal punto di vista
dottrinale è inammissibile, sono due cose completamente diverse. In molti casi
concreti vengono confuse per il carattere terribilmente complesso della
situazione del malato".
Può spiegarci meglio questo
passaggio?
Faccio un esempio: se questa donna è in coma da anni ed è in stato di
grande fragilità fisica e arriva una polmonite doppia e il medico non le dà gli
antibiotici questo non andrebbe quantificato come eutanasia, ma come
sospensione di un trattamento che potrebbe essere ritenuto dal medico futile,
inutile, sproporzionato.
Lei sembra indicare che ogni caso
è diverso dall'altro.
Proprio così. Si tratta di vedere
qual era la situazione concreta di questa malata perché lo stato vegetativo ha
differenziali sconfinati tra persona e persona. Eluana Englaro ad esempio,
anche perché giovane, non aveva bisogno di alcun farmaco, solo alimentazione e
idratazione, mentre altri malati parimenti in stato vegetativo sono però così
dissestati biologicamente che hanno bisogno di farmaci di sostegno vitale.
La decisione del giudice inglese
sembra comunque andare contro una mentalità che è sempre più diffusa, quella
che prevede l'eutanasia.
La mentalità che sta prendendo
piede è incredibilmente rozza dal punto di vista bioetico perché appiattisce e
rende omogenee situazioni profondamente diverse fra loro: confonde l'eutanasia
con la sospensione dell'accanimento terapeutico; introduce un criterio
fragilissimo quale la volontà del malato che il più delle volte viene
ipotizzata, ma che non ha nessun fondamento oggettivo riscontrabile.
Leggevo in questi giorni su
Repubblica una lettera di alcuni familiari di un malato terminale di 98 anni.
La famiglia chiedeva la
sospensione dell'alimentazione perché bisognava rispettarne la volontà: ma io
mi chiedo, dove si possa riscontrare giuridicamente la volontà di un vecchio di
98 anni malato terminale? E' un mistero. E' chiaro che a quell'età e in quella
condizione non c'è più volontà e capacità di discernere.
Dunque la famiglia che pretende
di rappresentare la volontà del malato non è sufficiente.
Non solo, ma si gioca anche con
il rispetto della professione medica. Un medico che diventerebbe un burocrate
che prende le direttive dalla famiglia del malato e le applica come se non ci
fosse una deontologia, una coscienza del medico il quale dovrebbe essere
totalmente autonomo dalla volontà della famiglia e anche da quella del malato.
Obbiettivo del medico è curare, non eseguire
la volontà del suo cliente.
Sembra che il confine su cui si
determina quando è il caso di sospendere le cure si faccia sempre più sottile
da parte di quanti sostengono il trattamento di fine vita.
Siamo in zone grigie di altissima
complessità. L'imperativo categorico è di non cadere in una semplificazione
ideologica e infantile. Chi cioè da una parte dice che la vita è sacra,
dobbiamo garantire che il cuore batta fino a quando è possibile farlo battere.
In questo caso cadiamo in accanimento terapeutico e in una psicologia
infantile. Chi è favorevole all'accanimento terapeutico non capisce che bisogna
rispettare il processo del morire quando è inevitabile e irreversibile.
E dall'altra parte?
Ci sono i fautori
dell'autodeterminazione che dicono il criterio guida è la volontà del malato e
se manca questa volontà c'è l'assicurazione della famiglia o del fiduciario che
ha raccolto la volontà del malato ad assicurare la sua volontà di morire. Come
se questo possa avere ragioni di giustizia.
Non usiamo tale pratica per il
testamento patrimoniale, cioè quando uno muore senza testamento nessuno può
fare testamento al posto suo, e vogliamo surrogare la mancanza di un testamento
biologico con fiduciari o dei parenti.
Ci muoviamo tra queste due
polarità estreme: sacralità della vita esasperata e anche infantile al limite
della nevrosi e dall'altra uno spirito illuministico che esalta la
autodeterminazione come se fosse la bacchetta magica.
Esiste una terza via, più
ragionevole?
La vera via è questa: il medico
deve badare al bene del paziente che significa nella stragrande maggioranza dei
casi la sua sopravvivenza. Ma quando la vita è definitivamente compromessa e il
processo del morire inarrestabile, il bene del paziente diventa non essere
sottoposto ad accanimento stupido e molte volte doloroso. So di prendermi
inimicizie da ambo le parti in causa, ma io non sto dando un criterio
risolutivo di tipo meccanico.
Il criterio che suggerisco tra
l'altro a mio avviso è abbastanza coerente con il disegno di legge di fine
vita: il medico deve ascoltare la volontà del paziente e il testamento
biologico, ma alla fine il medico per il bene del paziente deve prendersi le
sue responsabilità e non tenere conto del testamento biologico o viceversa
anche se la famiglia dice accanitevi.
Una via di mezzo difficilissima,
ma che bisogna pazientemente portare all'attenzione dell'opinione pubblica. Il
guaio è che la bioetica è caduta in mano alla politica e i politici utilizzano
come un braccio di ferro di tipo parlamentare qualcosa che invece merita ben
altri interessi.
(a cura di Paolo Vites)
© Riproduzione riservata.
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