giovedì 9 febbraio 2012


Cronaca - ELUANA/ 1. Scaraffia: diamo libertà ai medici e chiediamoci il senso della morte - INT. Lucetta Scaraffia - giovedì 9 febbraio 2012 - http://www.ilsussidiario.net/

A tre anni dalla morte di Eluana Englaro, il disegno di legge sul fine vita (Dat, dichiarazioni anticipate di trattamento) giace in Parlamento, in attesa di tempi migliori. Per condurlo in porto servirebbe quel consenso bipartisan che la fine del berlusconismo e la crisi dello spread hanno concentrato sul sostegno al governo tecnico di Mario Monti. Lucetta Scaraffia, docente di storia contemporanea nell’Università “La sapienza” di Roma, editorialista de L’Osservatore romano, torna sulla vicenda che ha diviso l’Italia. Non crede in una legge sul fine vita: «dovrebbero decidere i medici». Auspica – diversamente da quanto non si fece negli ultimi mesi di Eluana, «cadendo, noi cattolici, nella trappola dei radicali» – che ora si riprenda una discussione seria, sui limiti della tecnologia e sul senso del morire.

Lucetta Scaraffia, cosa ci ha lasciato la morte di Eluana Englaro?

È stato uno dei momenti più tristi e più bassi della vita civile del nostro Paese. Quanta disinformazione, quante polemiche. Avremmo dovuto salvare la vita di Eluana, certo; ma anche parlare di come definire con regole più chiare il problema del tempo massimo entro il quale operare la rianimazione di persone nelle sue condizioni. Perché il fatto che Eluana fosse ridotta in quello stato era dipeso da un uso eccessivo della tecnologia, questa è la verità.

Cosa intende dire?

Che nella battaglia polemica di quei mesi il «perché» della situazione di Eluana non venne mai messo seriamente a tema. Si parlò solo di cosa fare della ragazza. A quel punto una cosa restava da fare, amarla e accudirla finché era in vita. Ma il vero problema era, ed è tuttora, quello dell’uso esagerato delle tecnologie mediche allo scopo di tenere in vita le persone.

Allora le faccio io la domanda: perché Eluana era in quello stato?

Eluana è rimasta per anni immobile, alimentata con un sondino nasogastrico, non per una malattia ma per un intervento sanitario tecnologico. Mi chiedo: fino a che punto è giusto fare una rianimazione tardiva? Non dovremmo avere dei limiti? Il motivo per cui si fanno rianimazioni tardive è che i medici hanno paura di essere citati in giudizio: fanno di tutto anche sapendo che il risultato potrebbe essere quello che fu per Eluana Englaro. Sono indotti a questo anche dagli ospedali, finanziariamente stremati dal pagamento dei patteggiamenti delle cause. Fate tutto quel che potete, dicono ai medici, perché non ci siano cause.

Con Eluana non fecero tutto ciò che era in loro dovere per salvare una vita?

Sì, ma lei sa che c’è un tempo oltre il quale, se il cervello non viene irrorato, perde molte delle sue potenzialità. Nel caso di Eluana questo tempo è stato molto, troppo lungo. I medici non contemplarono il rischio di danni irreparabili e operarono ugualmente. Certe decisioni possono essere prese solo da medici pienamente liberi e responsabili. Intendo dire: non sottoposti a pressioni di altra natura.

I fautori della morte puntarono tutto sull’autodeterminazione: Eluana non avrebbe mai voluto vedersi in quello stato, in passato lo aveva detto.

Il caso dell’autodeterminazione era falso e mal posto, perché Eluana non formulò mai un «testamento biologico» sia pure ante litteram. Disse semplicemente quello che avrebbe detto ciascuno di noi in presenza di una persona in coma profondo. Anch’io direi «io non vorrei mai vivere così», ma ciò non vuol dire che vorrei essere ammazzata qualora fossi in quelle condizioni. Parlare di autodeterminazione fu una mostruosa falsità. C’era la «determinazione» del padre, ma quella era un’altra cosa.

Cosa rimane del caso della povera Eluana?

L’amarezza di essere caduti, come cattolici, in una trappola mediatica voluta e gestita dai radicali. Sono stati loro ad imporre l’agenda, a radicalizzare lo scontro, ad assegnare le «parti». Noi cattolici avremmo dovuto dire: salviamo Eluana, ma chiediamoci perché Eluana è in quello stato. Parliamo dell’uso esagerato della tecnologia medica e del suo potere, oltre che far di tutto per salvare la vita della ragazza. Si ricorda invece le patetiche dimostrazioni di solidarietà di chi portava cibo e acqua fuori dalla clinica? Sono la prova penosa di quello che sto dicendo.

Ma cosa avrebbe dovuto fare la Chiesa secondo lei?

I radicali ne fecero una battaglia ideologica, a partire dalla sentenza, per ottenere l’eutanasia. La Chiesa cadde nella trappola quando cominciò a fare, in quel preciso contesto, una battaglia contro l’eutanasia. Sui media era una battaglia persa, quasi senza possibilità di parola. Credo che la Chiesa avrebbe dovuto affrontare il caso concreto con più freddezza.

In che modo quella tragedia ha toccato la sua vita di credente e di studiosa?

Come credente, è stato atroce. Quella povera ragazza è stata trattata come un agnello sacrificale e questo mi ha recato un dolore immenso, come donna e come madre. Come studiosa, mi sono detta: dobbiamo, come cattolici, cambiare linea. Vedevo che la Chiesa non riusciva a farsi ascoltare nemmeno dalle persone considerate più cattoliche. Troppa confusione.

Confusione su che cosa, esattamente?

Sul «caso limite» di Eluana: ricordo di aver avuto l’impressione che molta, moltissima gente non sapesse in fondo cosa pensare. La faccenda in sé era molto complicata, ma nessuno la spiegava bene. Ad esempio per un po’ girò lo slogan: staccate quella macchina – ma la povera Eluana non aveva nessuna macchina. E ancora, sui pericoli dell’accanimento terapeutico, perché era questa, in fondo, la grande questione che Eluana poneva a tutti noi. Sui limiti della tecnica. E sul senso della morte. Possiamo rinunciare al valore della morte? Per un credente la morte è l’incontro con Dio. Non c’è il rischio di farsi condizionare dal vitalismo dominante, dimenticando che la fede cristiana ha operato il più grande cambiamento di segno della morte?

E adesso? C’è una legge sul fine vita che giace in Senato.

Anche quella legge è una conseguenza di quella trappola, perché è diventata una specie di rivincita. «Voi ci avete fatto questo, e noi vi facciamo quella legge». Perché vede, se parliamo con i medici ci rendiamo ben conto di come nessuno di loro rischierebbe mai di fare accanimento terapeutico. Con una tecnologia che cambia così rapidamente, sarei per lasciare al singolo medico, in coscienza, la decisione da prendere.

Che cosa si dovrebbe fare?

Aprire, anche in campo cattolico, una discussione seria. Io sono contrarissima all’eutanasia, ma penso che come appartenenti alla Chiesa dovremmo elaborare un discorso più ricco. Sull’inizio vita la bioetica cattolica è chiarissima e indiscutibile, sulla morte ci sarebbe molto da capire, discutere e chiarire. Ancora non l’abbiamo fatto.

(Federico Ferraù)


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