Educazione - SCUOLA/ Risé: quei bambini senza "padre"
allevati da Servi o Trasgressori - INT. Claudio Risé, mercoledì 1 febbraio 2012,
http://www.ilsussidiario.net
Cosa c’entra la manovra del
governo Monti con l’irresponsabilità diffusa dei «bambinoni» che escono dalle
nostre scuole? Per Claudio Risé, psicoterapeuta e scrittore, un legame c’è, e
affonda le sue radici nelle travagliate vicissitudini dell’Autorità. «Se non
c’è più un maestro inteso come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto
non si sviluppa». E finisce per essere solamente un servitore fedele
dell’Apparato. Risé interviene nel dibattito sull’autorità aperto da
Ilsussidiario.net.
Lei ha scritto che il tema della
crisi dell’autorità è divenuto un slogan. Perché?
Autorità è un termine molto ampio
e credo che valga la pena di distinguere almeno tra due aspetti diversi. Il
primo è il bisogno del soggetto umano che chiede un’autorità come fonte di
sapere, di accoglimento, di identità, in ultima analisi di crescita della
propria personalità, del proprio sé. Come ricorda Luigi Giussani, autorità
viene da augeo ovvero «aumento, faccio crescere, alimento». Il valore di questa
autorità è comunemente negato dalla società attuale, questo è vero. Ma al tempo
stesso, e molto insidiosamente, assistiamo ad una ipertrofia della seconda
valenza dell’autorità, intesa come fatto di potere burocratico-organizzativo.
Un esempio?
Nelle società occidentali
contemporanee, soprattutto in quelle europee, vengono create ogni giorno decine
di nuove norme giuridiche che orientano in modo dettagliato la nostra condotta.
Questo è un fenomeno di evidente e crescente autoritarismo. Non ne è immune,
per restare a noi, nemmeno la manovra economica varata da questo governo. Vi
sono contenuti degli aspetti «autoritari», dal controllo del denaro ai profili
economici delle persone, certamente fuori del comune. Si «liberalizzano»
imprese economiche modeste, come i tassisti o gli autotrasportatori, ma non si
tocca un monopolio pressoché onnipotente nei trasporti come le Ferrovie
Italiane...
Ma esiste un nesso tra l’overdose
di norme e l’irrilevanza della funzione autorevole in un rapporto educativo?
Sì. Se il soggetto non viene più
educato – e perché questo avvenga ci vuole quell’autorità formatrice di cui
parlavo prima –, viene consegnato alla polizia, alla norma autoritaria, che si
riproduce all’infinito come metastasi. L’intera esperienza del Novecento, da
questo punto di vista, chiarisce questa trasformazione: alla crisi degli imperi centrali che ponevano
Dio come riferimento ultimo dell’ordine politico e dell’Autorità, succedono le
rivoluzioni fasciste in Italia e in Germania, e l’avvento dei totalitarismi
nazista e comunista. La secolarizzazione avviata dalle rivoluzioni del
Settecento si compie attraverso l’intensificazione dei controlli burocratici e
polizieschi. All’autorità su di sé, costruita nel rapporto educativo con
l’altro, succede la diseducazione dell’individuo, che diventa quindi schiavo
del funzionario.
Ma la crisi dell’autorità è
l’esito di una formale, esplicita diseducazione ad essa?
No, si tratta di una crisi
culturale collettiva che si ripercuote all’interno della persona annichilendo
la sua soggettività e distruggendo la sua libertà. Se l’uomo non può più
riconoscersi come soggetto – e quindi, innanzitutto, anche come soggetto di
autorità su di sé, appresa nel rapporto educativo – diviene schiavo.
Non è questo un esito tragico
dell’individualismo?
A mio avviso va messo piuttosto
in relazione con la demolizione dell’autorità paterna. Precisando che questa
autorità paterna non è tanto il padre biologico o spirituale, ma Dio stesso, il
Padre. In tal senso, la crisi di cui parliamo è l’esito ultimo della
secolarizzazione. Mi limito a notare che le società anglosassoni, che per altri
versi sono fortemente individualiste, non hanno vissuto la stessa deriva
continentale europea.
Perché sottolinea questa
differenza?
La società americana è una
società molto più religiosa e meno secolarizzata della nostra: il riferimento a
Dio è costante, anche nella vita politica e nel dibattito pubblico. La società
inglese è forse meno religiosa, ma è sicuramente liberale e in essa il senso
della libertà individuale è fortissimo. L’autorità – anche da parte del
cittadino su se stesso e dunque come autolimitazione – è costantemente rivendicata
e protetta dalle norme; e la stesa attività legislativa è molto più contenuta
che nel resto d’Europa. I totalitarismi moderni sono un’invenzione (e forse
ancora oggi una tentazione) del continente europeo.
Che differenza c’è tra un maestro
e un semplice docente?
Il maestro è una figura
dell’anima, è qualcuno cui tu, allievo, riconosci la capacità di insegnarti
qualcosa che hai bisogno di apprendere per vivere come soggetto, e non come
schiavo. Il docente invece è una figura
burocratica, una qualifica. Non è detto che un docente sia anche maestro, come
non è detto che un maestro sia iscritto in qualche registro di docenti.
Si può dire che la figura del
maestro più che essere legata all’esercizio di un’autorità, è invece legata
all’autorevolezza?
Questa distinzione mi lascia
diffidente. Facendola nostra, seguiremmo un percorso proprio della cultura
contemporanea secolarizzata, per la quale l’autorità è qualcosa di cattivo in
sé: i suoi aspetti buoni sono l’autorevolezza, mentre i suoi aspetti cattivi convergono
sul polo dell’autorità. Io credo che il maestro, il padre, per certi versi
anche il capo in quanto persona riconosciuta come dotata di capacità formative
ed educative, siano delle figure d’autorità nel senso positivo del termine, in
quanto indispensabili a rafforzare l’autorità del soggetto su se stesso, dunque
la sua libertà. È la proliferazione delle norme la spia del fenomeno
autoritario nella sua accezione negativa moderna: il modello funzionariale. In
base al quale non ha valore chi tu sia, ma come «funzioni». Quella
burocratizzazione del mondo che Max Weber, già nei primi anni del secolo
scorso, aveva indicato come il grande pericolo del Novecento e che continua,
rafforzato, anche oggi.
Quali sono gli effetti palpabili,
nei giovani, di quella crisi dell’autorità che lei riconduce all’allontanamento
da Dio?
Il più evidente è l’indebolimento
del soggetto (tendente al suo annichilimento). Se non c’è più un maestro inteso
come formatore e suscitatore di libertà, il soggetto non si sviluppa. Da cui
questa scuola più o meno «pediatrica», che sforna persone per nulla adulte,
pronte ad essere diligenti osservatori delle norme che il potere continua a
somministrare; oppure, in modo speculare, trasgressori folli di queste stesse
norme. Vengono meno soggetti liberi capaci di sviluppo, amore, devozione per la
vita.
Che cosa deve fare chi ambisce ad
essere educatore?
Cercare di essere maestro:
riconoscere nell’allievo le sue potenzialità ed impegnarsi ad alimentarle alla
luce di una personale visione dell’uomo e della vita, di cui il maestro deve
assumersi la responsabilità. In secondo luogo, un maestro deve poter essere
libero di creare scuole. In fondo, la scuola di Stato è un’invenzione anch’essa
molto europea, imposta ovunque – e non è un caso – dopo la rivoluzione
francese. Spero che si vada presto verso l’estinzione di ogni forma di
autoritarismo statale, anche educativo, a vantaggio di scuole nate dalla
passione di chi si sente portatore di potenzialità formatrici, sul cui valore
verrà vagliato dalle persone, e non dai burocrati di Stato.
È difficile oggi essere maestri?
Molto. Non solo per viltà e per
pigrizia, ma perché essere maestri vuol dire umiliare continuamente se stessi,
riconoscersi mendicanti di sapere, cercare, imparare a ri/conoscere; mettersi
in ascolto del magister interiore. Il Padre, che ci cerca, e senza stancarsi
parla dentro di noi.
(Federico Ferraù)
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