Aborto, è anche un po' suicidio di Francesco Agnoli, 30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Quando uno ha già qualche anno,
non necessariamente più di trenta, è preso talvolta dai ricordi. Il volto di un
amico non più frequentato, un gioco, un passatempo, un’avventura dolorosa o
felice, risalgono dal pozzo della memoria sino alla superficie, con un gusto
agrodolce: ciò che è stato non è più, eppure è ancora nostro. Ciò che è stato
non possiamo più riprenderlo, purtroppo, e ci sfugge via. Però non è finito per
sempre, in verità, perché ha contribuito a renderci ciò che siamo. Ogni
esperienza vissuta si imprime più o meno fortemente in noi, nel nostro animo e
nel nostro corpo.
Siamo così, un sinolo di materia
e forma, di anima e di corpo, come diceva Aristotele. I materialisti non
possono capirlo, perché vedono solo materia che si muove. Gli spiritualisti
neppure, perché non capiscono cosa c’entri quel corpo, che pure, con tutti i
suoi pregi e i suoi difetti, ostinatamente c’è, nonostante il loro desiderio di
trascenderlo, di essere puro spirito, di “liberarsi”. Tutta la nostra storia è
qualcosa di spirituale e di fisico, una fusione armoniosa e inestricabile. Il
nostro affetto, che sentiamo nel cuore, che non tocchiamo, che ci sembra a
tratti infinitamente grande, verso la persona amata, si traduce in un
abbraccio, in una fatica, in un servizio, insomma in qualcosa di concreto. Il
nostro odio diventa parole, sentimenti, gesti, digrignare di denti.
Così, quando abbiamo una
relazione con una persona dell’altro sesso, una relazione affettiva naturale,
questa diviene col tempo anche unione carnale, fisica, perché la nostra unità
lo esige. Esige che amiamo con tutto noi stessi. Ma se abbiamo amato così, non
possiamo poi tirarci indietro pensando che sia senza conseguenze: non possiamo
divorziare, senza strappare il nostro passato e quindi anche il nostro
presente, e il nostro futuro, senza che tutto ciò che ci portiamo addosso urli a
noi stessi, di esistere, di essere stato, di essere in qualche modo ancora. Ma
soprattutto, visto che è questo di cui si parla in questi tempi, nessuna madre
e nessun padre possono pensare, dopo aver concepito un bambino, di potersene
disfare impunemente, con un gesto, fisico, una IVG, come si suole dire con
terminologia beffarda.
Ciò che è stato concepito, c’è,
esiste, e vive nel cuore e nella carne del padre, anche se lo rigetta, perché
in lui vive il gesto che ha determinato il concepimento, e la consapevolezza
latente del suo significato. Esiste, soprattutto, il concepito, nella psiche,
nella carne della madre. Il bambino non è parte della madre, come dicono gli
abortisti, cioè proprietà di lei, come una casa o una macchina, come qualcosa
che si possiede, ma che è altro da noi, fuori di noi. Quel bambino è parte
della mamma esattamente quanto la mamma è parte di quel bimbo. Parte, sempre,
in senso carnale, perché il bimbo è formato dall’ovulo della madre, nutrito in
simbiosi dalla madre e ospitato dal suo grembo; “parte” anche spirituale, il
concepito, perché in un certo senso “tutto ciò che è spirituale è anche
carnale” e “tutto ciò che è carnale è anche spirituale”.
Mi sorprende che quando si
affronta il problema aborto, questa verità così concreta non sia quasi mai
sottolineata.
Quando il feto viene ucciso,
intendo, anche una parte della madre viene uccisa: una “parte” fisica e una
“parte” spirituale; anche una parte del padre muore, per sempre. Anche una
parte del loro amore, se ne va, tanto è vero che vi sono coppie, come
raccontano medici che hanno seguito questi casi, che si separano in seguito ad
un aborto; altre che resistono, ma senza più amarsi come prima, tenute insieme
magari dal rimorso di quello che hanno fatto e dal ricordo di chi ora potrebbe
essere con loro.
L’atto chirurgico, è vero, stacca
e uccide qualcosa che sembra a sé stante, che appare, superficialmente, una
vita autonoma, seppure ospitata: in verità quella vita era sì individuale,
unica, ma era anche l’incontro biologico e spirituale delle vite dei suoi
genitori; era anche parte del sangue, del corpo, dello spirito, dei pensieri,
dei sogni, della madre (e del padre). Trovo conferma di queste mie riflessioni,
studiando un po’ la letteratura medica sul post-aborto, ad esempio nei
bellissimi saggi dei dottori Rigetti, Casadei e Maggino, compresi nel libro
“Quello che resta” (editrice Vita Nuova), sapiente mescolanza di saggi
scientifici e di testimonianze di donne.
In questo testo si spiega
chiaramente che “il lutto dell’aborto è plurimo, perché le perdite da
affrontare sono molteplici e strettamente concatenate le une con le altre… una
donna che interrompe la gravidanza soffre sia per la perdita del bambino che
per la perdita di una parte della propria immagine come persona (nei diversi
ruoli di figlia, donna, compagna, cittadina, appartenente ad una comunità
religiosa ecc.)”. Secondo il DSM III dell’American Psychiatric Association,
infatti, l’aborto è considerato un evento traumatico in quanto “produce un
marcato stress, tale da creare disturbi alla vita psichica; sopprime gli
elementi di identificazione (della donna) col bambino; nega la gravidanza ma
anche quella parte del sé che si era identificata col bambino”. Le conseguenze,
guarda caso, sono di tipo fisico e spirituale: “disturbi emozionali, della
comunicazione, dell’alimentazione, del pensiero, della sfera sessuale, del
sonno, della relazione affettiva…”.
Assai sintomatica di quanto si è
detto finora, mi sembra proprio l’esistenza dei disturbi affettivi e sessuali,
che si giustifica appunto come reazione ad un’esperienza sessuale, affettiva,
di cui non è rimasto nulla, o meglio di cui permangono sensi di colpa, rabbia,
paura, ripensamenti… Le occasioni del manifestarsi della sindrome post-abortiva
sono anch’essi assai eloquenti: compaiono di solito in occasione di una nuova
gravidanza, di un aborto spontaneo, di perdite affettive, di sterilità
secondaria… Ecco perché un’esperienza d’amore che si conclude con un aborto,
non rimane limitata a quel rapporto, a quella storia, ma si trascina e
ripercuote anche su un’altra esperienza affettiva, proprio perché la donna, la
persona, è una, sempre quella, pur nella molteplicità delle esperienze.
Per questo l’aborto si può
configurare, almeno in parte, anche come un suicidio, o, come scrivono alcuni
psicologi, un “lutto complicato” in cui si “rende necessaria l’elaborazione sia
della perdita dell’oggetto (il bimbo), sia della perdita simultanea e concreta
di una parte del Sé”, sia aggiungerei, di un perdita almeno parziale del rapporto
col coniuge. Ha scritto la dottoressa Lerda, su una rivista fortemente a
sostegno della 194 come Contraccezione, sessualità e salute riproduttiva: “Sia
che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il
peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. È una
scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali
partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre
gravidanze”.
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