L'arte del relativismo insegnata ai ragazzi di Giovanni Fighera, 18-11-2011,
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La nostra sembra proprio l’epoca
del relativismo e dell’ideologia imperanti, due aspetti che spesso si sposano
nell’insano connubio dell’ideologia relativista, subdola tanto da diventare un
habitus mentale raffinato che gli intellettuali e gli esperti sembrano quasi
vantarsi di sfoderare quando vogliono palesare il loro atteggiamento
politically correct o la loro presunta superiorità intellettuale.
Pochi giorni fa ho accompagnato
una classe di quinta Liceo a visitare il Museo del Novecento a Milano, aperto
da poco più di un anno vicino a Palazzo reale. L’occasione è stata davvero
importante per gli studenti che hanno potuto vedere dal vivo opere che, fino a
poco tempo fa, erano per lo più negli scantinati, non esposte, realizzate dai
più noti artisti italiani del secolo scorso, appartenenti al Cubismo, al
Futurismo, alla Metafisica, al Surrealismo fino ad arrivare ai movimenti degli
ultimi decenni del Novecento.
Dopo due ore di visita guidata, ecco
il momento più sorprendente della giornata. Siamo, infatti, giunti nelle sale
dove sono esposte le opere di Pietro Manzoni (tutti ricorderanno la famosa
«Merda d’artista») e gli squarci su tela. La guida ha parlato con
professionalità e con passione, da vera esperta. Ora, espone il suo giudizio
sulla genialità e sulla bellezza di queste opere. Chiede agli studenti il loro
parere. Un ragazzo risponde che secondo lui quella non è arte, anche lui sa
realizzare uno squarcio su tela, ma nessuno lo considererebbe mai opera
artistica. La guida, con sguardo quasi biasimevole, si rivolge a me, come se
commiserasse i ragazzi di oggi che non sanno apprezzare l’evoluzione e il
percorso dell’arte contemporanea. Asserisce che per la prima volta nell’arte lo
sguardo dell’osservatore è chiamato ad andare oltre la tela. Il pensiero e
l’intuizione da cui nascono questi squarci di artista in serie sono geniali.
A questo punto mi sento chiamato
in causa e sostengo la mia opinione su quegli squarci. Replico alla guida che
il Novecento è proprio il secolo delle ideologie, cioè delle idee che
prevalgono sulla realtà e sull’evidenza delle cose anche nell’elaborazione
dell’opera d’arte. Chiarisco meglio il concetto. Fino all’Ottocento possiamo
constatare che esiste una inscindibilità tra forma e contenuto. Il significato
dell’opera d’arte viene certo desunto dal fruitore o dal critico d’arte in
maniera interpretativa, ma a partire da una forma chiaramente distinguibile:
per questo l’opera è segno, nel senso più generale di rapporto tra significante
(la rappresentazione in sé) e significato (ovvero quanto l’opera d’arte vuole
comunicare). Il soggetto, certo, gioca sempre un ruolo decisivo nella
comprensione dell’opera, però a partire dall’oggetto.
Di fronte a molta arte del
Novecento, invece, lo spettatore comune si deve far da parte – a detta degli
esperti e critici d’arte – e far parlare lor signor interpreti, gli unici
depositari della capacità di comprensione di un’arte così distante da quella
passata. E che cosa fanno questi critici? Assegnano un significato arbitrario
ad un significante che di suo, spesso, non rappresenta alcuna forma o figura.
Sovrappongono a significanti grafici un pensiero, un’idea, un concetto
portando, quindi, il significato dall’esterno, fatto mai avvenuto in passato
quando l’opera d’arte valeva di suo a prescindere dal dono interpretativo del
critico o dell’artista. Oggi l’arte è sempre più lontana dalla realtà, sempre
meno imitatrice del reale, si traduce in fatto cerebrale, non colpisce più per
la sua unità, non sorprende più, non cattura con il sentimento della
contemplazione che si prova di fronte alla bellezza.
Non riporto qui per intero il mio
discorso. La guida mi risponde che evidentemente ci sono tante verità. Si deve
dubitare di tutto, come insegna la filosofia moderna. Allora, tra me, mi chiedo
perché abbia richiamato i miei studenti, dopo soli cinque minuti, ad
un’attenzione e ad una partecipazione perché la aiutassero nel suo compito di
guida, mi chiedo, cioè, perché li abbia spronati ad un rapporto. Se si deve
davvero dubitare di tutto, non è più possibile fidarsi di un discorso e neanche
davvero relazionarci.
Allora io le rispondo: «Ma scusi,
un presunto omicida è colpevole o innocente. Non c’è una terza possibilità. La
verità è per definizione una. O io sopravvivo dopo la morte oppure no. Il
problema non è che non esista un’unica verità, ma come arrivarci. Il problema è
la strada, il metodo». Ancora le riporto un episodio avvenuto qualche anno fa
in un’università di Milano in cui un docente universitario sosteneva che gli
studenti dovessero dubitare di tutto, addirittura del fatto che lui stesse
parlando, una studentessa si alzò in piedi dicendo: «Allora, se ciò fosse vero,
se noi tutti ora ci alzassimo in piedi e uscissimo da quest’aula, faremmo un
atto del tutto ragionevole e lei non potrebbe dirci nulla». Un po’ spiazzata,
la guida mi risponde che non aveva mai pensato in questo modo e che aveva
bisogno di tempo per ragionarci su.
Mi ha colpito molto quanto
accaduto. La ragione e la realtà sono l’antidoto migliore all’ideologia e al
relativismo. Noi siamo in grado per natura di cogliere la bellezza delle cose.
Se stiamo di fronte ad un pasticcio di artista, non dobbiamo avere paura di
usare la nostra facoltà di giudizio. La realtà ci provoca e ci chiama a dire la
nostra, chiaramente senza presunzione. L’ideologia, anche quella di quelli
intellettuali e artisti che pretendono di rifilarci le loro astrusità come
opere d’arte, non regge di fronte alla prova del reale e del cuore. Dobbiamo avere
il coraggio di guardare e di farci provocare. È sorprendente che in un mondo
come quello di oggi si possa arrivare ad avere una formazione artistico -
culturale di tutto rispetto senza che nessuno ti abbia mai insegnato ad usare
la ragione. Come si può crescere e diventare adulti senza aver mai pensato che
la verità è per definizione e per esperienza sempre una sola?
Questo dimostra, ancora una
volta, che l’educazione è davvero il primo bisogno e la prima necessità
dell’uomo di oggi, perché non soccomba, alienato, di fronte al deserto e al
cinismo odierni. Capiamo ancor meglio perché Papa Benedetto XVI insista in
maniera sempre più incalzante su un uso corretto, e non ridotto, della
ragione. L’uomo di oggi è vittima di tre
secoli di cultura razionalistica che ha ridotto la ragione a misura. La ragione
autentica dell’uomo è, invece, tutta spalancata sulla realtà fino a cogliere un
quid nascosto che ci sfugge, il Mistero, quel Mistero che secondo la tradizione
cristiana si è rivelato all’uomo in Gesù Cristo.
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