Storie da Hospice raccontano la vita di Tommaso Scandroglio, 23-11-2011,
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C’è chi ti parla al cuore e chi
alla testa. Fabio Cavallari, giornalista e scrittore, sceglie una terza via: i
suoi libri ti prendono allo stomaco, per poi infiammarti il cuore ed
illuminarti il pensiero. Cavallari nei suoi scritti usa la penna per dar voce a
uomini e donne che hanno già fatto della loro vita un romanzo: lui racconta
“solo”. Storie di vita segnate dal dolore, dalla prova, dalle lacrime (pensiamo
a Vivi – storie di uomini e donne più forti della malattia; Enrico Zanotti – la
politica che lascia il segno; Volti e stupore – uomini feriti dalla bellezza).
Ma sotto questo strato di sofferenza palpita la bellezza di vivere, anzi è
proprio il dolore il prisma attraverso cui il gusto di vivere risplende.
L’ultima sua fatica letteraria
non sfugge a questa regola. Il grande campo della vita – storie da hospice
raccoglie le testimonianze di chi sul campo – il campo della vita appunto – è
accanto a quei pazienti terminali che stanno per varcare l’estrema soglia,
soglia che li condurrà, come scrisse Giovanni Paolo II, da vita a Vita. Se la
nostra esistenza possiamo immaginarla come un grande terreno da coltivare –
così ci suggerisce il titolo – allora non ci sarà bravo contadino al mondo che
lascerà non dissodato e non seminato anche il limitare estremo del suo podere.
La vita può portare frutto sempre e forse, a leggere Cavallari, se non
abbandonata a se stessa porta ancor più frutto negli ultimi suoi istanti.
Cavallari, l’anno scorso con Vivi
– storie di uomini e donne più forti della malattia (Lindau) ha voluto
raccontare le vicende umane di persone e famiglie che combattono ogni giorno
per la vita nonostante patologie estremamente invalidanti. In questi giorni
esce nelle librerie un altro suo libro dove ha voluto raccontare i primi dieci
anni di attività dell’Hospice Colombus dell’ospedale Sacco di Milano. Si tratta
di un passo oltre, del tentativo di voler oltrepassare il confine?
Voglio rispondere con parole non
mie. Le volontarie dell’Hospice, che sono figure centrali dell’équipe medica,
ripetono spesso una frase: “Non accompagniamo nessuno alla morte. Sino a quando
si vive, si accompagna alla vita”. Questa non è una sottolineatura che hanno
imparato in qualche corso di formazione, od una litania laica ispirata ad una
profonda convinzione religiosa. No, le loro parole sono l’esperienza di un
vissuto che travolge, lascia attoniti, diventa maestro e allievo. Dentro le
pagine di questo libro ho voluto raccontare un’esperienza. Mi preme far presente che non è la morte ad
essere messa sotto osservazione e neppure un’astratta idea di
autodeterminazione. Tra le pieghe di queste storie, è la vita che nelle sue
manifestazioni più infinite vuole essere narrata. Rabbia, ironia, liberazione.
Vissuti e incontri, passioni e attese, al centro sempre l’uomo, la persona in
tutta la sua ampiezza.
In Hospice si giunge quando ogni
terapia attiva non è più possibile. Quindi di che cure stiamo parlando?
Oltre alla terapia del dolore,
gli operatori si dedicano con particolare impegno al sostegno psicologico,
religioso e sociale. Si tratta di un approccio medico fondato sulla persona e
sulla relazione umana, prima ancora che sulla patologia, che permetta ai malati
di far emergere la propria personalità e il proprio vissuto. Accompagnare è il
verbo principe. Accogliere, disporsi a
ricevere a piene mani. Sono queste le “disposizioni” del volontario. Sedere
accanto cioè assistere, ad-sistere, rispettando senza condizioni i modi e i
tempi.
Lei insiste sulla volontà di
raccontare, di porgere una narrazione, ma così facendo, soprattutto per una
tematica così delicata, non si rischia di cadere nella retorica emotiva del
dolore?
Si possono raccontare storie,
vicende umane, cammini difficili e aneddoti in grado di turbare l’emotività del
lettore. E’ possibile rifugiarsi in verità pressoché inconfutabili, affidarsi a
dotte sottolineature scientifiche, lasciarsi guidare da precise
puntualizzazioni mediche. Tutto potrebbe risultare perfetto, intellettualmente
ineccepibile, privo di ombre o macchie oscure. In realtà, nella migliore delle
ipotesi, saremmo solo al cospetto di una buona narrazione astratta. Ciò che non
è possibile produrre per ipotesi è la proiezione di sé fuori dalla condizione
data. Quanto non è pensabile immaginare è il “passo” del malato, di colui che
davanti a sé ha il destino terreno, segnato dalla parola “fine”. E’ la realtà
che sfugge a tutte le sue determinazioni razionali. E’ l’umano inafferrabile.
Noi che porgiamo il racconto, che vantiamo la pretesa di offrire uno sguardo su
quella parte di cielo adombrata dalle quotidiane mondanità, possiamo solo
metterci a lato, lasciare che la realtà s’imponga, senza lasciarci fagocitare
dall’immagine che di essa ci siamo costruiti. Nel “Grande campo della vita” ho
voluto raccontare il vivere, la fatica e la gioia di uomini e donne che ogni
giorno e senza proclami, compongono un inno all’esistenza.
Cosa ha voluto dire per lei, da
un punto di vista personale ed umano,
entrare in un Hospice?
Varcare la soglia di un Hospice
significa spogliarsi di ogni incrostazione, accogliere la limitatezza della
propria ragione, sospendere ogni anelito consolatorio, o il tentativo di
emettere giudizi.
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