Le sfide obbligate dello Stato sociale di Alberto Orioli, 28 novembre
2011, http://www.ilsole24ore.com/
Con i tassi da brivido sui titoli
pubblici italiani, conseguenza di una guerra planetaria tra valute in funzione
anti-euro, può sembrare ragionevole chiedersi come mai debbano essere le
pensioni a "pagare il conto".
In realtà, il salto dalla visione
larga, larghissima, degli sciami aggressivi della finanza internazionale allo
sguardo ravvicinato sul libro mastro del welfare-Italia, c'è di mezzo la
rilettura sofferta che tutta l'Europa fa, deve fare e sta facendo della propria
idea di Stato sociale.
È un sistema che ha consentito,
in questi anni, a un intero continente di poter vivere al di sopra dei propri
mezzi. L'attacco all'euro è legato alla montagna di debito pubblico su cui
siede un'Europa ancora troppo poco consapevole del gigantesco sforzo di unità
politica che la attende: tra i debiti, quello italiano è il più grande. I 1.900
miliardi di stock italiano finanziano, con le emissioni di titoli pubblici ora
oggetto della pressione sui rendimenti, un bilancio pubblico per il 35%
destinato ai costi previdenziali. Nel complesso l'Italia, già adesso, spende il
15% del Pil per la previdenza, quattro punti in più della media Ue (il doppio
di quella Ocse), ma è il Paese con il maggior tasso di invecchiamento della
popolazione. Dunque, le tendenze future di spesa pubblica peggioreranno se non
corrette in tempo.
L'operazione equità (coniugata
con rigore e crescita) promessa dal Governo Monti passa anche da una revisione
del nostro sistema di previdenza.
Il ministro Elsa Fornero ha
riproposto un'idea semplice quanto efficace, più volte lanciata anche da queste
stesse colonne: estendere il sistema contributivo per tutti i trattamenti, in
anticipo rispetto alla tabella di marcia già prevista dalle vecchie riforme. A
pag. 2 e 3 Davide Colombo, Marco Rogari e Salvatore Padula spiegano bene quale
sia il cronogramma degli interventi e quanto sia il beneficio che essi
apportano alle pubbliche finanze. A questi vanno aggiunti i 20 miliardi
"promessi" dalla riforma dell'assistenza la cui congruità e
realizzabilità effettiva è, però, considerata ancora molto aleatoria.
Equità significa anche stabilire
un futuro previdenziale più dignitoso per qualche milione di lavoratori legati
a forme di contratti flessibili: oggi pagano il 20% di contributi sulle
retribuzioni e la pensione attesa è più o meno simile all'assegno sociale, ai
limiti della soglia di povertà, perchè oscillante tra il 40 e il 45% della
retribuzione media calcolata su tutta la vita lavorativa.
Oggi le aliquote per le diverse
tipologie di lavoro (tra dipendente e autonomo) sono una decina, con evidenti
sprequazioni e oscillano tra l'8,6% (sic!) dei deputati al 33 dei lavoratori
dipendenti. Un ragionamento su forme più armonizzate di prelievo e di entità dell'assegno
finale di quiescenza è necessario.
La vera anomalia italiana sono le
pensioni di anzianità, bersaglio inevitabile per ogni azione rifomista nel
campo del welfare: quasi 4 milioni di persone sono andate in pensione a 58-59
anni negli ultimi tempi, fatto che non ha eguali in Europa.
È evidente che ogni operazione di
equità non può non passare da una rivisitazione anche del sistema fiscale e non
può non farsi carico di una ulteriore spinta alla lotta all'evasione (e l'idea
di diffondere ancora di più la tracciabilità dei pagamenti va nella direzione
giusta). È per questo che il Governo ha già annunciato la reintroduzione
dell'Ici, del pari con la rivalutazione delle rendite catastali. Nel complesso
si tratta di una forma di patrimoniale che, effettivamente, per chi abbia più
di una sola abitazione potrà rivelarsi molto onerosa. È un passsaggio nella
direzione del cambio di peso tra la tassazione delle persone e delle cose, più
volte annunciato come slogan anche dall'ex ministro Giulio Tremonti.
Ma la soluzione alla crisi non è
solo italiana, ma non è nemmeno solo europea. Deve essere contemporamenamente
nazionale e comunitaria. La coesione e il dialogo contano sia su scala
continentale sia su scala nazionale. Solo quando la inedita forma di "equità
per sottrazione" (vale a dire sacrifici per tutti, anche per chi non li ha
mai fatti) andrà a regime e si renderà visibile, l'Italia avrà raggiunto gran
parte dei suoi obiettivi macroeconomici. Naturalmente non può non maturare una
rivisitazione radicale delle prebende della politica, a partire proprio dai
vitalizi per arrivare fino al cuore dei costi, sia delle istituzioni, a tutti i
livelli, sia delle forme di sottogoverno che hanno portato a un vero e proprio
ceto di quasi due milioni di persone che vivono di politica.
Analoga coesione – il Papa nei
giorni scorsi ha invitato a un rivoluzionario «coraggio della fratellanza» per
uscire dalla crisi – vale anche per l'Europa. Il Vecchio Continente è impegnato
a cercare convergenze sulla politica economica comune che, auspicabilmente,
dovrebbe approdare a forme di eurobond, in attesa di giungere a una vera e
propria convergenze dei sistemi fiscali, vero caposaldo per ogni strategia
comune di rafforzamento dell'euro. Solo così i 400 milioni di abitanti che oggi
conoscono l'euro come moneta, ma non ancora l'euro come effige del
"sovrano europeo", vivranno una nuova stagione, grandiosa e cruciale
per le prossime generazioni.
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