Con il Rosario salviamo i bambini di Andrea Zambrano, 29-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
“CON la perseveranza salverete la
vostra vita”. Andrea Mazzi, 45 anni (nella foto), una moglie e due figli,
ingegnere della multiutility di Modena e si definisce "obiettore
fiscale" perché non vuole “che lo Stato finanzi l'aborto con i miei soldi”,
ha preso la frase evangelica e l’ha fatta propria. Però ci ha aggiunto
qualcosa: “... Salverete anche la vita degli altri, specie se a rischio di non
nascere”. Come? Seguendo alla lettera una frase profetica del suo padre
spirituale, don Oreste Benzi. Eccola: «Ho trovato il modo per far cessare gli
aborti in tutta Italia: andare a pregare di fronte agli ospedali». Mazzi
racconta che quando nel 1998 il sacerdote riminese propose la cosa ai “ragazzi”
della comunità Papa Giovanni XXIII era già chiaro fin da subito che per
quell’intuizione profetica serviva principalmente la faccia tosta di chi sa di
perdere tutto per trovare tutto. Così ogni lunedì a Modena e in altri giorni in
altre 6 città (Rimini, Ancona, Faenza, Forlì, Bologna e Madrid) il servizio
“Maternità difficile e vita” della comunità si ritrova da quasi 13 anni davanti
agli ospedali per recitare il Rosario. L’ora è improba: alle 6.45.
Perché così presto?
«Perché quello è l’orario in cui
le donne entrano in day hospital per abortire.
Ma scusi, perché non vi trovate
nelle cappelle degli ospedali?
«Don Benzi lo ripeteva sempre:
“Noi dobbiamo rendere pubblico quello che avviene nel silenzio degli ospedali”.
Il fatto è che la società è anestetizzata. Che cosa accadrebbe se un giornale
domani titolasse a sei colonne: “Ieri cinque bambini uccisi nell'ospedale della
nostra città”. Direbbe una cosa vera?»
Sì, vera, ma scomoda. Eppure non
si fa...
«Lo vede che la nostra società è
addormentata? Un motivo della preghiera pubblica è questo. La preghiera è una
forma di denuncia pubblica di una grave ingiustizia che si sta compiendo, noi
preghiamo Dio ma anche la società affinché cessi».
Esclusivamente pubblico. Una
provocazione.
«No. Siamo spinti dalla preghiera
come principale dimensione spirituale. L’immagine è molto semplice: sotto la
croce c’era Maria, che non poteva far nulla per togliere suo figlio da quel
supplizio, ma stava lì e pregava. Ecco, noi facciamo lo stesso. Siamo lì,
nell’ora in cui questi bambini vengono uccisi: non possiamo impedire la loro
morte, ma stiamo vicino a loro e preghiamo per loro, ci ricordiamo di loro e
delle loro madri, anch'esse vittime».
L’ideologia dominante parla di
autodeterminazione della donna: guai a chi tocca questo principio. Faccio
l’avvocato del diavolo: come vi permettete di giudicare la scelta di queste
donne? «Lo abbiamo sempre
detto pubblicamente: non siamo contro le donne, non giudichiamo nessuno. Anzi,
la nostra preghiera nasce sempre dalla constatazione del fatto che tutti siamo
complici e quindi che la prima necessità è quella della nostra conversione».
Che cosa volete ottenere?
«Preghiamo per le mamme di questi
bambini sperando che qualcuna vedendoci pregare possa ritornare sui suoi passi
e decidere di accoglierli. Non siamo su un piedistallo a giudicare le “donne
peccatrici”, questo lo pensano i tanti che ci attaccano e ci ostacolano anche
con la violenza e la forza».
Addirittura?
«Cominciarono quando don Oreste
era ancora in vita. Nel ’99 a Rimini venne a pregare anche il sindaco, così
nacque un movimento che andò avanti per un certo periodo».
Che facevano?
«Osteggiavano la preghiera. A
Bologna arrivarono con gli striscioni per buttarci fuori dai marciapiedi del
Sant’Orsola. Altre volte chiamavano i carabinieri. Lo sa cosa disse loro don
Oreste?»
No.
«“Ma guardate che i bambini li
stanno uccidendo là, dentro l’ospedale, non qua”».
Contestazioni sulla sua pelle?
«A Modena c'è sempre stato chi ha
criticato questa preghiera, abbiamo avuto una forte attenzione mediatica anche
perché siamo piuttosto numerosi (agli inizi eravamo una cinquantina).
Nell’ultimo anno gli attacchi sono diventati più forti».
Da parte di chi?
«Principalmente L’Udi (Unione
donne in Italia), area cosiddetta “femminista”, oggi vicina a Sel».
Campagne mediatiche ostili?
«Non solo, attacchi diretti. Un
anno fa c’è stato un “salto di qualità”, hanno alzato il tiro».
Perché?
«Dapprima hanno fatto un reclamo
alla polizia municipale sostenendo che creavamo confusione e molestavamo le
persone. Gli agenti sono venuti e hanno riscontrato l’infondatezza della
segnalazione. Quindi hanno diffuso un comunicato dicendo che avremmo molestato
una donna che si recava in ospedale, ma si erano basati su una telefonata
anonima che loro sostenevano di aver ricevuto: così ci hanno accusato pubblicamente
di una cosa assolutamente infondata. Non proprio carino...»
Come andò a finire?
«Con un nulla di fatto,
ovviamente. L’Udi lo ha detto pubblicamente: “vogliamo che i “pregatori” se ne vadano” e per questo “andremo fino in
fondo”, fino a quando cioè non troveranno il modo di farla smettere».
Ci sono mai andati vicini?
«Noi non ci siamo mai fermati, e
dire che di ostacoli ne hanno messi sulla strada. Le ho già detto
dell’assemblea pubblica?»
No...
«Dopo il comunicato hanno
organizzato un incontro pubblico per chiedere alle istituzioni di avviare una
serie di azioni per impedirci di pregare. Lì hanno rivelato che da anni hanno
una forma di attenzione periodica su di noi».
In che modo?
«Di tanto in tanto vengono a
controllare quello che facciamo».
Ma voi continuate a pregare anche
se siete sotto controllo dei "guardiani della rivoluzione"?
«Certo, l’unica cosa che abbiamo
fatto è stato togliere temporaneamente alcuni cartelli che spiegavano le
ragioni della nostra iniziativa per far risaltare meglio che siamo solo un
gruppo di preghiera e non facciamo manifestazioni politiche. Così è rimasta
solo la croce. Ma c’è anche un altro gruppo».
Quale?
«A ruota dell’Udi si sono mossi
anche gli autonomi e i collettivi anarchici. A Modena c’è il Guernica, poi c’è
un coordinamento donne di Rifondazione comunista, insieme hanno messo in campo
azioni per attaccare la preghiera. Lo scorso aprile sono venuti due volte e con
i megafoni, mentre noi pregavamo, ci hanno urlato ogni sorta di “complimento”».
E voi?
«E noi continuavamo a pregare...!
Soltanto un amico si staccò dal rosario per scattare una foto e documentare la
cosa».
Immagino, non l’avesse mai fatto...
«Un autonomo lo ha minacciato:
“Se scatti un’altra foto, ti spezzo le gambe”. Ma noi abbiamo sempre mantenuto
uno stile mite e nonviolento: abbiamo anche dato loro una lettera e ci siamo
resi disponibili per un incontro, che però loro hanno rifutato. Alcuni giorni
dopo hanno fatto anche una manifestazione davanti al consultorio e una in
piazza».
Contestazioni a parte, c’è
qualche risultato?
«Sì, abbiamo tante belle storie a
“lieto fine”. Una volta una mamma a Rimini si stava recando ad abortire e poi...»
...e poi?
«E poi il miracolo della
preghiera. Entrammo in contatto, le parlammo del bambino che aveva dentro di
sé, la incoraggiammo che i suoi problemi si sarebbero pututi risolvere. Lei
scoppiò a piangere e decise che non avrebbe abortito. E dopo settimane di
angoscia provò finalmente un grande sollievo».
Che cosa le avete detto?
«Che è giusto dare al proprio
bambino la possibilità di nascere e di conoscere la vita».
Questo è bastato a convoncerla?
«Non c’era bisogno di
convincerla. Lei, come ci raccontò successivamente, sentiva già che doveva dare
una possibilità al suo bambino, lui non aveva colpe e non doveva pagare per i
suoi sbagli».
C'è qualche donna che cambia idea
e torna indietro a ringraziare come nei casi evangelici dei miracoli? «Sì,
tante. Addirittura a volte succede che qualcuna decida nonostante il nostro
aiuto di abortire e poi ci ringrazi perché “almeno voi ci avete provato ad
aiutarmi”. La preghiera raggiunge gli angoli più disparati. Ho ancora negli
occhi quello che accadde ad una coppia ghanese».
Che cosa?
«Una mamma ci aveva notato
durante il Rosario, le lasciammo un volantino. C'era una foto di un bambino nel
grembo e la scritta “Why don't you let me live?” (perché non mi lasci vivere?).
Salì in reparto e lasciò quel volantino su un comodino della stanza dove
c’erano le donne in attesa di abortire. A fianco c'era una coppia di ghanesi.
Lei non avrebbe voluto abortire, ma lui l’aveva convinta a farlo. Quando però
lui guardò il volantino, rimase folgorato. Guardò la moglie e le disse: “Ma
cosa stiamo facendo?”. Si alzarono di scatto e se ne andarono. Dopo pochi
minuti sarebbe arrivato l'infermiere a prendere la donna per portarla in sala
operatoria».
Folgorati?
«Sì. Abbiamo offerto loro un
percorso di affiancamento, ma dopo un po’ abbiamo capito che preferivano
muoversi autonomamente. E abbiamo perso i contatti».
Intanto una vita era stata
salvata...
«Un paio di anni dopo andiamo a
trovare in ospedale un'altra mamma ghanese e vi troviamo una sua amica: era la
donna che scappò a pochi passi dall'aborto, Ci riconobbe. Mi disse una frase
che non dimenticherò mai: “Ogni volta che guardo mio figlio penso a voi e a
quello che avete fatto per me”. Certe storie ti riempiono il cuore, ma facendo
questa attività devi confrontarti anche con tanti lutti».
Che cosa dice la Chiesa locale?
«La Chiesa deve essere il punto
di riferimento. Don Oreste prima di dare avvio a questa preghiera, ne parlava
sempre prima con il vescovo di quella diocesi. Così è stato anche a Modena, e
anche il nuovo vescovo è a conoscenza di questa nostra iniziativa. Quando sono
partiti gli attacchi alla preghiera il settimanale diocesano ha avviato una
raccolta di firme a nostro sostegno».
Come reagiscono i medici e gli
infermieri?
«Dentro agli ospedali c'è un
grande disagio in chi opera nei vari percorsi per arrivare all'aborto. E' un
disagio interiore che si oggettiva nel fatto che sono sempre di più le
obiezioni di coscienza.
Non c'è il rischio che siano di
comodo? Di chi dice: “Ma chi me lo fa fare?”».
«Quella che è cresciuta molto in
questi ultimi anni è un’obiezione di coscienza “da saturazione”. Posso
testimoniare con i miei occhi e le mie orecchie: ci sono medici, ostetriche e
infermieri che non ne possono più di fare aborti. Capiscono di essere solo
ingranaggi di un’orrenda macchina di morte e che non possono andare avanti per
sempre a farsi scudo dietro al fatto che c'è una legge da applicare. Certe cose
le vedono meglio di altri e faticano a tenerle nascoste perché li costringono a
interrogarsi su quello che vedono».
Che cosa vedono?
«Soprattutto l'aborto in fase
avanzata, è un piccolo parto. Il bambino nasce vivo ma non ha gli organi pronti
per respirare e muore entro qualche ora, salvo casi come quello di Rossano
Calabro (aborto alla 26esima settimana, il feto vivrà per un giorno dimenticato
dal personale sanitario). Una volta terminato, quelle stesse ostetriche si
girano nel letto a fianco e devono assistere un altro bambino, nato alla stessa
settimana di gestazione, o poco più, che sta lottando per sopravvivere e si fa
di tutto per salvarlo».
Dunque con il feto delle stesse
dimensioni...
«E vedono l'orrore! L'orrore di
una prassi ospedaliera che di fronte a due neonati uguali lascia morire chi non
è destinato a vivere. Un operatore ospedaliero un giorno si recò in cella
frigorifera e vide un feto che ancora respirava. E' l'orrore che si aggiunge
all'orrore».
Avete conosciuto medici o
paramedici che sono diventati obiettori?
«Sì, Un'operatrice ci ha
raccontato di una frase che si dicono tra colleghe: “Andremo tutte
all'inferno”. Loro lo sanno che è un mestiere tremendo, parlo ovviamente di
coloro che fanno parte dell'equipe che segue gli aborti. Di altri sappiamo che
sono andati molto in crisi.Dentro gli ospedali c'è un dramma fortissimo. E in
tanti arrivano a dire: “Non ce la faccio più”. Anche da questo nasce la Ru 486,
che ha lo scopo di aggirare il problema...»
Come accompagnate le donne che si
avvicinano a voi?
«Anzitutto bisogna riconoscere,
come diceva don Oreste che dietro ad una donna che vuole abortire, c'è sempre
qualcuno che la fa abortire. L'aborto è un pensiero estraneo alla donna, è
indotto.
Dal padre del bambino...?»
Certo: ricatti, violenza e inviti
pressanti sono sempre più frequenti, ma non ci sono solo i compagni.
Ad esempio?
«L'atteggiamento ostile del
datore di lavoro, l'ambiente circostante con le pressioni dei genitori o tutori
che fanno leva su ragazze minorenni o donne con problemi psichici».
E gli assistenti sociali?
«Ci sono assistenti sociali che
di fronte a casi di povertà si permettono di dire: “Pensaci bene, hai già altri
bambini...”. E poi ci sono le spinte dei medici».
Che invitano ad abortire?
«Certi responsi di esami
prenatali sono tremendi, perché identificano il malato con la malattia. Come si
fa a dire a una donna: “Signora, lei aspetta un down?”. E a questo punto tante
volte è il medico stesso a suggerire l’aborto. Senza neanche offrire alla
coppia la possibilità di incontrare famiglie che hanno bambini con lo stesso
problema, per capire realmente di cosa si tratta».
Quindi oltre che una mentalità
abortista c'è anche una sorta di induzione sociale all'aborto, come se la donna
dovesse affrontare un protocollo ulteriore?
«Altroché. Ecco perché ora
l'urgenza è fare campagna di sensibilizzazione su questo tema. Fino ad ora
abbiamo visto le campagne sulla libertà della donna di abortire, ma la verità è
che loro abortiscono perché non vedono davanti a sé alcuna alternativa, hanno
pressioni micidiali attorno che le spingono a farlo».
Avete già idee?
«Prendere a modello quello che
accade in diversi stati del nord America.
Che cosa?
«In 12 stati degli USA sono state
approvate leggi che prevedono l’obbligo di informare le donne che non devono
essere indotte da nessuno. In Missouri e Idaho ci sono già leggi severe che
prevedono sanzioni contro chi induce ad abortire. Oppure in Canada è stata
presentata la “Roxanne’s Law”, che proponeva sanzioni pesanti dopo il caso di
una donna immigrata, uccisa dal compagno perché si era rifiutata di abortire.
Il progetto di legge è stato bocciato, ma è già un passo avanti che se ne
parli. Una speranza in più, da alimentare con il Rosario del lunedì».
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