La bimba che non volevo nascerà di Isabella, 19 anni, Perugia, 26-11-2011,
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Pubblichiamo la testimonianza di
Isabella, 19 anni, studentessa di Infermieristica, rimasta incinta dopo una
relazione con un coetaneo che l'ha lasciata, dicendole che non vuole essere
padre. Isabella coraggiosamente ha deciso di raccontare la sua storia, non una
favoletta dal lieto fine scontato, ma la toccante esperienza di una ragazza
come tante che d'improvviso viene scaraventata fuori dalla sua comoda
normalità, una vicenda non priva di dubbi, incertezze, paure e proprio per
questo straordinariamente autentica.
Mi sembra ieri. Il giorno in cui
ho scoperto di essere incinta. Il primo test, l’ansia crescente, il secondo
test, positivo. Lo fissavo: positivo positivo. La sensazione di smarrimento
totale mi pervade in un istante, il terrore si impadronisce di me e io
impietrita, incapace di reagire. Descrivere una sensazione del genere è
difficile, quasi impossibile, è come una vibrazione che nasce dalle viscere e
si propaga in tutto il corpo, un veleno letale dall’interno che ti mangia le energie e spegne ogni luce.
L’unica cosa che ero in grado di vedere era la mia vita letteralmente
distrutta, smembrata, i miei progetti frantumati, il futuro che stavo costruendo diventare
un’utopia irraggiungibile. La persona che volevo essere non c’era più, era un
ricordo lontano. I miei sogni erano svaniti, insieme ai miei 19 anni, me li ero
giocati per sempre.
Solo il pensiero di dove
comunicare la gravidanza ai miei genitori mi provocava un male indescrivibile,
l’idea di vedere la delusione stampata sui loro volti e perdere la loro stima
mi faceva impazzire, come uscire da questo disastro?
Eppure l’idea di abortire mi
spaventava molto molto di più, il pensare dei gelidi strumenti infilarsi dentro
di me e fare a pezzi un corpicino, no, non avrei potuto reggerlo. Avevo visto
su internet alcune foto terrificanti di feti abortiti nelle primissime
settimane… piccole miniature di una persona fatta a pezzi, non potevo. Dentro
di me c’era una vita concepita per sbaglio, certamente non voluta, ma non avrei
risolto il problema in quel modo, non avrei rimediato all’errore con un altro
più grande e irreparabile. Eppure quel bambino proprio non lo volevo.
Contrariamente alle mie
aspettative più tragiche, quando piangendo e piena di vergogna confessai ai
miei genitori di aspettare un bambino, non ci furono né urla né porte sbattute.
Solo silenzio, tanta preoccupazione sui loro volti, lacrime trattenute a stento dagli occhi di
mia madre e poi tanto, tanto conforto e amore. Non che il percorso sia stato
facile, anzi, ma non ho mai sentito venir meno questo amore, quello dei miei
genitori, che nello smarrimento mi hanno capita e quello di mia sorella
maggiore che non mi ha lasciato sola neanche un momento.
I primi tre mesi sono stati i più
difficili. Molto prima del concepimento, il papà del bambino, giovanissimo come
me, si era dimostrato instabile e, quel che è più grave, bugiardo e
violento. Io ero debole e innamorata, e
non riuscivo a staccarmi del tutto da lui perché di volta in volta credevo alle
sue promesse alle sue parole, nonostante verso di me spesso mostrasse
disprezzo: “Senza di me resterai sola per tutta la vita”, diceva. Quando gli ho
detto che aspettavo un bambino le reazioni sono stati altalenanti. Prima gli scatti d’ira, poi
pressioni le psicologiche: “l’aborto alla tua età è l’unica cosa intelligente
da fare”, poi pesanti insinuazioni:“sicuro che il padre sia io?”, poi spariva,
per tornare dolce come l’uomo più docile del mondo, e io lo accoglievo, ogni
volta nel dolore. Al terzo mese è sparito del tutto, si era trovato un’altra
ragazza. Senza fardello.
Sono stati momenti di profonda
tristezza, provavo disprezzo per la persona con cui ero stata, mi appariva con
tutta evidenza quanto fosse irrimediabilmente vuoto, superficiale, gelido. Mi
odiavo, mi sono odiata per mesi interi, forse ancora adesso mi odio per non
essermi allontanata prima, perché senza di lui adesso avrei ancora la mia vita
da ventenne: gli amici, l’università, lo svago.
Nello sconforto più totale ho
accettato, non senza difficoltà, di
parlare con un sacerdote, la mia anima era dilaniata. Io non volevo quel figlio
ma sapevo che non avrei mai vissuto serenamente compiendo la scelta più
“facile” e più “ovvia”. Pur nelle paure e stretta dai dubbi avevo una cosa
chiara: non volevo dannarmi l’anima compiendo un atto così terrificante. Don Fabio mi ha rassicurata, mi sentivo una
madre degenere – perché non volevo uccidere io quella vita, eppure desideravo,
speravo e addirittura a volte pregavo
che mi capitasse un aborto spontaneo - mentre lui mi ha fatto sentire
assolutamente normale: “Questa nascita sarà una grazia”, diceva. Io non ci
credevo, a dire il vero, ma mi sentivo sollevata.
Avevo deciso di affidarmi al
progetto di Dio, un progetto che non accettavo prima e faccio fatica a
comprendere oggi. Era surreale, ma qualche tempo prima di scoprire di essere
incinta, mi trovavo a riflettere proprio sul progetto di Dio sulle nostre vite.
Ero in ospedale a fare il normale tirocinio previsto dalla mia facoltà e ogni
giorno avevo a che fare con persone che combattevano malattie devastanti con
una forza straordinaria. Mi sentivo in colpa, io, perché stavo bene, perché la
mia vita era normalissima, non avevo particolari difficoltà, perché dentro
quell’ospedale ci stavo solo per apprendere e studiare e non come quei malati,
stesa su un letto per combattere il dolore e strappare un giorno alla morte. Mi
ricordo bene che una sera, mi rivolsi a Dio, con una gratitudine immensa nel
cuore, ringraziandolo per questa vita così perfetta in confronto a quelle vite
di sofferenza. E quella stessa sera, mentre ero a letto, gli domandai quale
fosse il Suo progetto per me, per la mia vita.
Non potevo immaginare che neanche
un mese dopo, la mia normalissima vita sarebbe stata stravolta. A pensarci mi
vien da ridere.
La mia bambina nascerà tra poco
meno di un mese e lo ammetto, non provo amore e neanche affetto, mi dicono che
è normale, che appena nascerà sarà diverso, ma lo stesso io non so che fare, non
so ancora se tenerla, oppure darla in adozione.
Non so cosa sia meglio per me, non so cosa sia peggio per lei.
Non mi resta che affidare a Dio
questa decisione, l’ennesima, sperando che mi illumini. Tanto lo so che
entrambe le scelte saranno difficili e dolorose, entrambe saranno un’enorme
rinuncia. Di certo non mi pento di non avere abortito, sarebbe stato
innaturale, perché ho capito da subito
che c’era una vita dentro di me. Non “una vita” in astratto, la vita di
un’altra persona dentro di me! Ricordo
come fosse ieri la prima ecografia, quando ero ancora in tempo per abortire,
per la prima volta ho sentito il cuoricino battere, ho pianto disperata. Oggi
invece ironicamente rido pensando a chi dice:
“è solo un grumo di cellule”. Se è così, prova a lasciarlo dove è, e
vedi che succede. Che vuoi che sia un
ammasso di cellule? Dici che non è un bambino, allora a cosa serve farlo a
pezzi? Lascialo nel tuo corpo tranquillamente, tanto non è vivo, no? Coraggio, è
ridicolo… Eppure ogni giorno si perdono
nel nulla i pianti silenziosi di bambini che non avranno mai una vita, perché
l’egoismo della loro mamma ha avuto la meglio.
Sono al nono mese, ho ancora
molti dubbi, molte incertezze ma di una cosa sono certa: c’è sempre
un’alternativa all’aborto. E chi
sostiene che lasciare il proprio figlio in adozione sia un atto peggiore dell’abortire stesso,
dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza. Perché è un atto d’amore, dolore e
sacrificio. Potrai convivere con te stessa, sapendo che quel figlio vive perché
tu hai scelto di non ucciderlo. Sapendo che una famiglia si prenderà cura di
lui con amore, e anche lui avrà la sua possibilità su questa terra. Perché una
possibilità di vivere tu l’hai avuta, ed è giusto che ce l’abbia anche lui.
Perché una possibilità ce la meritiamo tutti.
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