LETTERA/ Caro Bersani, la dignità è un'altra cosa... di Carlo Bellieni,
mercoledì 30 novembre 2011, http://www.ilsussidiario.net
Gentile on. Bersani, arriveremo
poi a conclusioni diverse, ma al convegno di Scienza e Vita (18 novembre, Roma)
ha messo il dito sulla piaga. Ha detto che negli ultimi anni c’è stata una
rivoluzione culturale: la gente che un tempo aveva paura della morte improvvisa
ora ha paura della morte “senza dignità” (e spesso se la augura, la morte
improvvisa).
Sarebbe interessante trarne le
stesse conclusioni, ma questo richiede dialogo e tempo. La mia conclusione è
che nulla può togliere all’uomo la sua dignità, dunque va combattuto il dolore,
ma non si può pensare che il dolore renda la vita indegna. La dignità è
intrinseca; un fiore può essere sbattuto, calpestato, strappato, ma resterà
sempre un fiore.
Invece per alcuni la dignità
consiste nel “poter fare una certa cosa”, e nel nostro immaginario finisce che
l’idea che abbiamo di dignità coincide con le nostre passioni (o le nostre
fobie). Tutte cose buone, per le quali impegnarsi, spesso; ma un po’ poco per
pensare che “lì” risieda la nostra dignità. E questo ha riflessi sociali: come
si pensa che certe malattie tolgano la dignità, così si pensa che certi lavori
non siano “degni” (e i cittadini dei Paesi ricchi non li fanno più perché si
sentono sminuiti). Non è vero. Perché non c’è nulla che tolga all’uomo/donna la
dignità di uomo/donna, neanche il lavoro più faticoso o la malattia mentale.
Perché la dignità non dipende dallo stato in cui siamo: anche in un lager si
conserva la dignità, vedi Primo Levi (questo però non toglie che il lager vada
cancellato).
Dunque la lotta vera è quella
contro il dolore e la solitudine e anche contro le cure inutili; non sul credere
che una certa vita è “indegna”, e che l’unica soluzione è toglierla o
togliersela. E perfida è la società che lascia le persone sole, obbligandole a
scegliere tra una vita disegnata come “indegna” e scelte letali (aborto,
eutanasia, droga): che razza di scelta “libera” è?
Per questo non concordo con
quanto scriveva Stefano Semplici sull’Unità (21 novembre): “La Chiesa non
raggiungerà l’obiettivo (…) fino a quando insisterà che la crisi morale del
nostro tempo dipende da un difetto di conoscenza”. Invece, credo, il punto è
qui: ri-conoscere. Ecco un’altra rivoluzione: un tempo si accusava la Chiesa di
essere tesa solo al soprannaturale, al primato della coscienza sulla
conoscenza; non era proprio così, ma poteva sembrarlo; oggi di essere tesa solo
al naturale, alla conoscenza, ed in parte è vero, perché la Chiesa invita a
riconoscere il reale, mentre sono altri che mettono la “coscienza” (cioè il
soggettivismo) al centro dell’etica.
Ma cos’è la conoscenza di cui
parliamo? La conoscenza è dare alle cose il loro nome. E’ riconoscere che
l’uomo non diventa mai “meno degno”, e che proprio per questo deve essere
sempre e comunque tutelato, anche dalle sue paure. E riconoscere che non si può
defraudare il salario, che non si può uccidere, che non si può violentare; e
riconoscere pari dignità a qualunque essere umano, indipendentemente dall’età,
dalla razza o dalla malattia. Le sembrano cose su cui si può discutere? E’
essere certi che su alcuni temi non ci sono “due verità”, a seconda di chi
parla: stuprare è sempre un male, frodare le tasse o rubare al povero è sempre
una male, aggredire il bambino (nato o non nato che sia) è sempre un male; poi
ci saranno attenuanti, ma il male è certo.
Il problema è che oggi prevale
l’etica dell’auto-nomia, cioè che se TU decidi che una cosa non è male, diventa
BENE, a condizione di avere la FORZA per farsi valere. E certa bioetica
utilitarista (“io valgo solo se so farmi valere, se sono legge a me stesso”)
toglie la qualifica di “persona” a coloro che avrebbero “perso dignità” (feti,
disabili mentali, pazienti in coma prolungato).
Insomma, on. Bersani, oggi siamo
in una società spaventata e solitaria in cui si cerca di pararsi e ripararsi da
tutto e da tutti, perfino dalla morte, perfino dai nostri cari che ci guardano
morire; e dal lavoro che genera poco potere spicciolo e spendibile socialmente
(e questo accade non solo al manovale, ma anche tante volte ai manager). Magari
pensando che una decisione presa nel chiuso della propria stanza, di fronte ad
un foglio di dati sia garanzia di libera scelta e dignità. Ma - e immagino che
su questo potremo dialogare - la vera dignità è un’altra cosa, e la solitudine,
sommo ideale della società postmoderna, può farci scordare di averla.
Allora dobbiamo garantire che
nessuno si senta mai abbandonato: empatia da parte di chi cura, accesso a cure
psicologiche, ad un ambiente non deprimente, alla compagnia dei cari,
provvedimenti che diano agevolazioni e addirittura mettano al di sopra degli
altri le persone con disabilità e malattie gravi. Cioè ri-conoscere, leggere la
realtà. Diamo queste poche ma forti garanzie a chi sta male. Poi, solo poi, si
potrà domandare se la vita è degna; solo poi si può discutere sulle leggi.
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