La menzogna dell'aborto che cura di Renzo Puccetti, 18-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
«Di fatto, per la donna sana con
un matrimonio felice, l’aborto è più spesso veramente terapeutico». Con questa
frase il dottor Malcolm Potts a pagina 227 del suo saggio scientifico dedicato
all’aborto pubblicato per le edizioni dell’Università di Cambridge nel 1977,
"demitizzava" il presunto danno per la madre derivante dall’aborto
volontario. Chi era il dottor Potts? Si può rispondere che per decenni, assieme
a Christopher Tietze, Mary Calderone, Alan Guttmacher, egli abbia costituito la
punta di lancia dello schieramento militante di medici abortisti, risultato
determinante per la legalizzazione dell’aborto in America e nell’occidente.
Fondatore della prima clinica per la contraccezione giovanile a Cambridge,
primo uomo ad operare alla clinica per aborti londinese Marie Stopes, primo
direttore medico di una delle maggiori organizzazioni abortiste, la
International Planned Parenthood Federation, ancora oggi dalla cattedra
dell’Università di Berkley il professor Potts è attivo promotore di iniziative
volte alla diffusione del controllo delle nascite e all’espansione dell’accesso
all’aborto. Difficile immaginare qualcosa di diverso, se si è convinti che
abortire faccia bene alla salute delle donne.
In effetti l’abortismo
libertario, per utilizzare una categoria del giurista Lombardi Vallauri, si è
sempre affermato attraverso il tentacolo umanitario. Perché in moltissime
legislazioni, compresa quella italiana, le donne possono liberamente abortire?
Per salvaguardare, si dice, la loro salute, identificata nella quasi totalità
dei casi, con la salute psichica. Negli anni della lotta per giustificare
l’aborto legale come riconoscimento di un diritto alla salute, fu molto
importante per il movimento abortista potere disporre di studi che dimostravano
alti livelli di ansia tra le donne con gravidanza non programmata ed il
miglioramento che seguiva l’interruzione volontaria della gravidanza. La frase
citata in apertura, che semplicemente riprendeva una pubblicazione medica del
1970, può essere considerata un esempio di quell’azione ideologica camuffata da
avanzamento nelle acquisizioni scientifiche.
In effetti sarebbe stato strano
che l’ansia connessa alla gravidanza e dalla preoccupazione per un livello in
genere ad elevato contenuto emozionale, non si mostrasse mitigata nel breve
periodo dopo l’aborto, ma che cosa succedeva guardando le cose con una
prospettiva di puù lungo termine? In effetti nel corso degli anni ha cominciato
a emergere una realtà assai diversa rispetto al quadro idilliaco di
psico-terapeuticità dell’aborto: un certo numero di donne stavano male, alcune
uscivano da quell’esperienza a pezzi e avevano cominciato a rivolgersi a
psicologi, psichiatri, sacerdoti in cerca di una qualche forma di aiuto, per un
malessere che non voleva saperne di abbandonarle. Dopo una serie di studi
risalenti in maggioranza agli inizi degli anni 2000, nel 2004 giunse uno dei
colpi più forti alla teoria fino a quel momento sostenuta da uno studio molto
ampio della durata di 14 anni condotto confrontando tutte le donne che dal 1987
al 2000 avevano abortito volontariamente con le altre che invece avevano patito
un aborto spontaneo o invece avevano portato a termine la gravidanza con la
nascita del figlio. Lo studio venne pubblicato sulla rivista dei ginecologi
americani e mostrò che l’aborto volontario si associava ad una mortalità tripla
e addirittura, se si andavano a contare le morti da causa violenta, l’incidenza
risultava aumentata di ben sei volte. Dopo quello studio non si poteva più
sostenere che le donne avessero una saluta migliore dopo l’aborto.
Colto in fallo il movimento
abortista mise immediatamente al lavoro i propri tecnici, per depotenziare
l’esplosività di quel dato e questi riuscirono a tirare fuori dal cilindro una
soluzione, seppure parziale: quel risultato non attestava la pericolosità
dell’aborto per la salute mentale delle donne per due motivi sostanziali, il
primo perché il confronto sarebbe dovuto essere svolto confrontando le donne
che abortiscono non con tutte le donne che partoriscono, ma con solo quelle che
portano a termine una gravidanza non programmata o espressamente indesiderata,
la seconda ragione che inficiava il risultato consisteva nella mancanza di
controllo della salute mentale prima dell’aborto. Si formò così piuttosto
velocemente la linea del Piave dell’abortismo psichiatrico e ginecologico: le
donne che abortiscono non stanno psicologicamente peggio a causa dell’aborto,
ma i problemi psichici sono presenti tra queste in maggiore misura prima
dell’aborto e determinano un maggiore rischio di aborto; se si considerano
questi fattori l’aborto non esercita alcun impatto negativo sulla salute
mentale delle donne che ad esso si sottopongono. Nel 2006 un altro ricercatore,
il neozelandese Fergusson, non credente, schierato su posizioni pro-choice,
pubblica i risultato di un’indagine in cui più di mille bambini vengono seguiti
dalla nascita fino l’età di 25 anni. Pur tenendo di conto di numerosissimi
altri fattori che teoricamente potevano influenzare il risultato emerge che le
ragazze con esperienza di aborto volontario mostravano un’incidenza di ansia,
depressione e pensieri suicidari significativamente superiore alle coetanee che
non erano mai rimaste incinte ed a quelle che, incinte, avevano fatto nascere
il bambino.
C’è di più, il dottor Fergusson,
dopo la pubblicazione dell’articolo, rivela al pubblico di avere subito
pressioni affinché quei dati non fossero pubblicati. Si trattava di una realtà
scomoda, un non credente non poteva essere accusato di confessionalismo. Come
un orologio il movimento abortista si mise di nuovo al lavoro e trovò la
soluzione nella pubblicazione di revisioni della letteratura, la più importante
delle quali, nel 2008, ad opera niente di meno che della potente associazione
degli psicologi americani, una realtà dove il pensiero relativista è pressoché
un dogma di fede. Che tra i sei revisori almeno due, Brenda Major e Nancy
Felipe Russo fossero esponenti dichiarati dell’ideologia abortista, ed altri,
come Linda Beckman, appartenenti al fronte pro-choice, è dettaglio da non
trascurare, tanto che già a nomine appena avvenute, il mondo pro-life esprimeva
la certezza di un pronunciamento negazionista. E questo è infatti quanto
avvenne; attraverso un sapiente gioco di selezione degli studi e di valutazione
differenziata delle problematiche metodologiche a seconda del risultato degli
studi, la commissione giunse a concludere che «tra le donne che hanno un
singolo aborto legale nel primo trimestre per una gravidanza non programmata
per ragioni non terapeutiche, il rischio relativo di problemi mentali non è
maggiore del rischio tra le donne che portano a termine una gravidanza non
programmata».
Nel 2011 è infine apparsa una
medesima revisione del collegio degli psichiatri inglesi che, seppure in
maniera più sfumata, afferma che «i risultati per la salute mentale sono
probabilmente gli stessi, indipendentemente che la donna con gravidanza indesiderata
opti per l’aborto o la nascita», aggiungendo però uno spunto precauzionale: «se
le donne che abortiscono mostrano una reazione emotiva negativa all’aborto, o
fanno esperienza di eventi vitali stressanti, dovrebbe essere offerto sostegno
e controlli poiché con maggiore probabilità di altre sviluppano un problema di
salute mentale». La saga potrebbe sembrare finita qui, ma in effetti non è
così. Con una articolo "bomba" apparso sul numero di settembre della
rivista degli psichiatri inglesi Priscilla Coleman, specialista con lunga
esperienza di studio ed assistenza alle donne in difficoltà psicologica dopo
l’aborto, pubblica una revisione dei dati su poco meno di novecentomila donne
che per la prima volta assembla le risultanze numeriche provenienti da 22 studi
ed il risultato è chiaro: rischio aumentato di ansia, raddoppio dell’abuso di
alcool, uso di marijuana più che triplicato, rischio suicidarlo aumentato di
due volte e mezzo; nel complesso un aumento dell’81% di problemi psichici a
carico delle donne che abortiscono.
L’articolo ha suscitato un
prevedibile polverone, accuse di incompetenza scientifica e faziosità sono
state apertamente rivolte all’autrice, critiche al processo scientifico che ha
portato all’accettazione dell’articolo da parte sulla rivista e invito al
ritiro dello studio hanno caratterizzato il contenuto di numerosi commenti.
Accanto a questi, la difesa del prof. Fergusson che ha anticipato un prossimo
studio realizzato con lo stesso approccio della Coleman, ma tenendo conto delle
critiche rivolte al suo lavoro. Il risultato?
Considerando anche i soli studi in cui le condizioni psichiche erano
valutate anche prima dell’aborto, vengono confermati l’incremento del rischio
per la salute delle donne che abortiscono (+36%), l’aumento del disturbo
d’ansia, dell’abuso di sostanze, dei comportamenti suicidari.
In conclusione credo che la
lezione da trarre sia la stessa che abbiamo scritto al Bristish Journal of
Psychiatry che l’ha pubblicata tra le lettere: allo stato delle conoscenze è
incontestabile anche per gli stessi abortisti che l’aborto non è per niente
terapeutico; a livello di salute pubblica costituisce una procedura per le
donne di nessuna utilità al fine della salvaguardia della loro salute mentale,
si tratta in sostanza di una procedura futile. A livello fattuale il
"serio pericolo per la salute della donna" posto a giustificazione
della richiesta di aborto dalla legge italiana non riceve alcuna mitigazione
dall’aborto. Vorrà il mondo della politica, dell’informazione, della cultura,
della legge prenderne atto e trarne le logiche conseguenze? C’è da dubitarne,
ma qui si gioca una buona fetta dell’onestà intellettuale di tanti attori sulla
scena; hic Rhodus, hic saltus.
Nessun commento:
Posta un commento