Paola Bonzi, in prima linea per la vita di Raffaella Frullone, 15-11-2011,
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Quando in redazione è nata l’idea
di promuovere una grande campagna contro l’aborto, immediatamente abbiamo
pensato a Paola Bonzi. 68 anni, madre, nonna, fondatrice e direttrice del
Centro di Aiuto alla Vita della clinica Mangiagalli di Milano, in 27 anni di
attività ha salvato più di 11.000 bambini offrendo alle loro madri
un'alternativa all'aborto. «La donna giusta per la nostra battaglia» abbiamo
pensato, e siamo andati a trovarla. E' bastato entrare nel suo studio però,
scala B della clinica che negli anni 70 – 80 era considerata l’emblema delle
interruzioni volontarie di gravidanza, per respirare immediatamente la
sensazione di essere ben lontani da qualunque “battaglia” o “campagna contro”
qualcosa. Paola Bonzi non è armata che del suo sorriso accogliente, non
combatte perché le donne cambino idea e non solo salva i bambini, fa
innanzitutto nascere le loro mamme.
Ex insegnante consulente
familiare, Paola Bonzi riceve in uno studio sobrio e accogliente donne incinte
di ogni età ed estrazione sociale. Alcune non sanno decidere del proprio
destino e di quello del figlio che portano in grembo, altre non hanno mezzi per
potere mantenere un bimbo, altre ancora hanno già fissato l’intervento di
interruzione della gravidanza.
Giovanissime o adulte, italiane o
straniere, hanno un punto in comune: tutte si sentono inadeguate a diventare
madri. E si rivolgono al C.A.V. per un aiuto.
«Arrivano, si siedono e prima o
dopo monta il pianto a diritto. Sono arrabbiate, disperate, si sentono
impotenti, si sentono costrette a liberarsi del figlio che portano in grembo,
pensano di non avere scelta. Nei miei quasi 30 anni di esperienza ho capito che
queste sono innanzitutto donne che hanno
avuto un’esperienza irrisolta dell’essere figlia e quindi si sentono incapaci
di assumere il ruolo di madre. Inoltre vivono una situazione di ambivalenza:
alternano momenti di euforia in cui si sentono forti e vogliono tenere e
crescere il proprio figlio, ad abissi di depressione totale. Difficilmente però
la scelta di abortire è contestuale a dei fatti specifici, in superficie è
così, ma andando a fondo si scopre che il cuore del problema è psicologico.»
Cosa dice a queste donne per
evitare che abortiscano? Come le convince?
«Non le convinco e non dico.
Entrano, si siedono, le accolgo e aspetto che parlino, senza fare domande.
Significativo come il fatto che molte donne comincino il loro racconto dicendo
“niente…”, non dicono “allora”, “ecco”, “in pratica”, dicono “niente” quando il
“niente” vorrebbe dire “tutto”. Poi raccontano la loro storia come se stessero
convincendosi, ed elencano le innumerevoli ragioni per le quali il bambino che
aspettano non può e non deve nascere. Spiegano, raccontano, puntualizzano
sciorinano una serie di ragioni oggettive per cui non possono diventare madri.
Non adesso, non è il momento, non così, non con lui. Questo è il momento di
quello che chiamo “ascolto attivo”, nel quale mi faccio un quadro e mi chiedo
innanzitutto cosa posso fare per questa madre, se posso offrire un aiuto, sia
esso di tipo economico o psicologico. La cosa straordinaria è che chi passa di
qui, generalmente non va ad abortire, ma lo scopro spesso molto dopo, perché
non solo non insisto ma non voglio nemmeno sapere cosa decidono, se scelgono di
interrompere la gravidanza io soffro troppo, ed è meglio quindi non sapere. Mi
limito a offrire quello che posso. Qualche giorno fa è arrivata una donna che
nemmeno voleva parlarmi quasi, l’aveva convinta un’amica a venire, ma lei era
tutto un no: “Lui mi ha lasciata, non posso tenere il bambino, perdo il lavoro,
non deve nascere, non voglio aiuti”. L’amica era disperata ma io ho detto
“Basta, non tormentarla, lei sa che se vuole, qui possiamo darle una mano”, ero
molto pessimista perché non aveva mostrato spiragli di dubbi, eppure poi mi ha
chiamato dicendo che aveva deciso di tenere il bambino.»
Di vicende come questa ne avrà
ascoltate molte in questi anni…
«Moltissime e molto diverse. Si
va dalla donna straniera senza permesso di soggiorno che va a mangiare alla
mensa dei poveri, alla donna benestante e istruita che non vuole intralci nel
percorso professionale. Spesso racconto la storia di una signorotta
impellicciata che arrivò da me incinta alla ventiduesima settimana, aspettava
due gemelli, ed era rimasta incinta dopo un’iperstimolazione ovarica, non
voleva più questi bambini. “Com’è possibile?”, pensavo. Era granitica: “Voglio
abortire”, diceva, e nemmeno di accorgeva che il marito già amava questi bimbi.
“Non mi importa se è tardi, non li voglio, ho trovato il medico disposto a
farmi un aborto tardivo”. Continuavo a
non capire e quindi la lasciavo parlare, ad un certo punto disse che lei non li
aveva mai voluti quei figli, aveva iniziato a cercarli in tarda età soltanto
per compiacere la madre anziana che voleva diventare nonna, ma la madre era
morta durante la gravidanza e quindi quei figli non le servivano. Non sapevo
che dire e soprattutto rimasi agghiacciata dalla freddezza delle sue parole.
Non dissi nulla, e non seppi più nulla. Sette anni più tardi ricevetti una sua
telefonata: i gemelli erano nati, stavano festeggiando il compleanno e lei mi
aveva chiamato per ringraziarmi. Un'altra storia che spesso racconto è quella
di una terrorista, un’assassina, rimasta incinta in carcere. Ricordo il gelo
nelle sue parole: “Non ci penso nemmeno a far nascere questo bambino, magari è
pure malato, non sia mai.” Non so perché le ho dato un secondo appuntamento,
l’ho ricevuta in tardo pomeriggio, ero qui da sola e non nascondo la mia
inquietudine di fronte ad una donna con un passato così pesante e con una
freddezza cieca nei confronti del bimbo che portava nel grembo. Invece è
tornata trasformata, affettuosa, aveva cambiato idea, e nacque una bambina».
Da dove deve partire una campagna
culturale contro l’aborto, per essere efficaci?
«Occorre essere militanti nel
cuore, ma accoglienti con le parole e concreti nei fatti. Noi non possiamo
limitarci ad offrire una verità, pur importante che sia, dobbiamo offrire un
aiuto, è questo l’atteggiamento che ci rende credibili. Non c’è la ricetta
giusta, occorre prestare estrema attenzione alle richieste di soccorso che
manda la donna, accogliere le sue parole, depurarle dalle ansie e rimandarle a
lei purificate dalla paura. Occorre far sentire la donna capace di diventare
madre. Due anni fa ho scritto un libro dal titolo “Oggi è nata una mamma” (Ed.
San Paolo) che raccoglie alcune delle storie che ho vissuto qui nel consultorio
del Centro Aiuto alla Vita, il titolo esprime proprio l’ambivalenza di cui
parlavo prima. La donna incinta vive una straordinaria capacità di dare vita
insieme ad un desiderio distruttivo, se la relazione con la madre è irrisolta
il senso distruttivo prevale. Io dunque cerco di accogliere queste donne, mi
faccio utero per loro, affinché si sentano a loro volta in grado di
“accogliere” e dare al mondo una vita. Questo però riguarda il nostro lavoro,
che si svolge gomito a gomito con le donne in difficoltà. Sul fronte culturale
è più complesso, ci si scontra sui princìpi, è uno sterile muro contro muro, e
a volte anche alcune battaglie sono sterili…»
Per esempio?
«Se una donna ha un problema
economico e non riuscirebbe a dare da mangiare al figlio, non serve ripetere “che
l’aborto è sbagliato, che il cuore del bimbo batte già alla settimana x”,
occorre aiutarle nel concreto, offrire una possibilità. Non serve parlare di
“battaglia culturale contro l’aborto”, parlerei invece di “campagna per la
vita”, e ciò che incide in questo caso, come in tanti altri, sono i fatti. Noi
cerchiamo di offrire alle donne un supporto psicologico ed economico che vadano
oltre il parto, ma questo è il nostro, di lavoro. Per chi opera nel campo
culturale diventa invece essenziale indirizzare le donne dove questo aiuto lo
possono trovare e poi lavorare nel campo educativo, è in famiglia che si impara
la cultura della vita, e anche scuola. Dobbiamo fare in modo che questi bimbi
nascano e siano accolti, e per questo dobbiamo accogliere le madri quando non
sono ancora mamme, quando sono ragazzine e bambine. Dobbiamo far capire queste
donne che fare nascere un bambino non è un problema soltanto loro, è una
questione importante per tutta la società, per tutti noi. Quel figlio suo è
atteso e necessario per tutti! Io ci credo fermamente! Come si fa a non volere
un piccolino? Scusa io mi agito quando parlo di queste cose…»
Davvero, Paola Bonzi si agita, si
emoziona, si infervora, si addolora alla sola idea dell’aborto, gioisce ad una
nascita. Le difficoltà le ha sperimentate sulla sua pelle, poichè durante la
sua seconda gravidanza ha perso la vista, ma con eroico coraggio le ha
affrontate e bastano 5 minuti nel suo studio per capire che, anche se non con
gli occhi, ci vede benissimo, legge nel cuore, accoglie senza parlare, convince
le donne ad essere madri partendo da quello che le fa sentire inadeguate. Una
donna che offrendo un aiuto concreto salva una piccola vita e cambia il corso
di molte altre, il tutto grazie alla sua irrefrenabile passione per la vita,
alla sua rara capacità di accoglienza e alla sua grande umiltà. «Non faccio
nulla di straordinario, anzi sono solo fortunata - minimizza. - Ho esaudito il
mio desiderio e faccio quello che ho sempre sognato: stare accanto alle donne
in un momento difficile. Non importa se qualche notte non dormo perché non so
se troveremo abbastanza soldi, non importa se di fronte ad alcune di queste
vicende mi sento impotente, quello che conta ed esserci, è essere qui ogni
giorno. Quante altre persone sono così fortunate che mentre sono in vacanza
attendono con ansia il momento di tornare al lavoro?»
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