IL CASO/ De Nigris: quel padre che rinasce dal coma grazie alla figlia
sfida la nostra "normalità" - INT. Fulvio De Nigris, lunedì 23 luglio
2012, http://www.ilsussidiario.net/
Mark Ellis è inglese e ha 24
anni. Due settimane prima della nascita della sua bambina, Lola-Rose, viene
colpito da un ictus che lo paralizza completamente. I medici lo tengono in coma
indotto ma comunicano alla moglie che, una volta sveglio, Mark soffrirà per
sempre della cosiddetta sindrome “locked-in”: per tutta la vita sarà quindi
prigioniero del suo corpo, senza possibilità di movimento. Lola-Rose intanto è
nata, ha quasi un anno di vita e muove i suoi primi passi: il papà la osserva
con gli occhi, l’unico strumento con cui riesce a comunicare e, imitando prima
i suoi movimenti e successivamente le sue parole, incredibilmente sta riuscendo
a riprendersi e a riacquistare una certa autonomia. Ne parliamo con Fulvio De
Nigris, fondatore dell’associazione “Gli amici di Luca” e direttore del Centro
Studi per la Ricerca sul Coma.
Direttore, cosa ne pensa?
E’ una di quelle storie che
certamente danno speranza e che in qualche modo confermano ciò che spiego anche
nel libro “Sento che ci sei - Dal silenzio del coma alla scoperta della vita”,
vale a dire il desiderio e la convinzione delle famiglie che il loro caro in
stato vegetativo o in minima coscienza sia presente e capace di comunicare. Si
tratta ovviamente di una comunicazione differente che però, nonostante sia
fatta di altri stili e metodi, esiste. C’è però un importante aspetto da dover
sottolineare.
Quale?
Bisognerebbe osservare
concretamente i progressi di questo ragazzo, i suoi movimenti, il suo
linguaggio, i suoi gesti: purtroppo spesso non assistiamo a un completo ritorno
alla normalità come avviene nei film, ma si tratta di un lungo e lento percorso
di riabilitazione che comporta grandi difficoltà per la famiglia e un grande
impegno da parte dei medici.
Quanto conta quindi, come nel
caso di Mark, la presenza della moglie e della figlia?
Molto, anche dal punto di vista
terapeutico la loro presenza è fondamentale. Una volta letta la notizia ho
pensato subito alla cosiddetta teoria dei “neuroni a specchio”, ideata dal
gruppo di ricerca coordinato da Giacomo Rizzolatti.
Di che si tratta?
Sostanzialmente della possibilità
che gli stessi neuroni attivati dall'esecutore durante l'azione vengono
attivati anche nell'osservatore della stessa azione, esattamente come fosse una
sorta di “specchio”. Certamente una bella speranza in percorsi di questo tipo.
Come sono cambiati in questi anni
i rapporti tra medici, pazienti e familiari?
Si è instaurata una specie di
osservazione reciproca: ogni segnale inviato dal paziente può apparentemente
sembrare incomprensibile ma fortunatamente, a poco a poco, proseguendo nel
percorso terapeutico, ogni piccolo “SOS” lanciato con lo sguardo diventa
qualcosa di più, qualcosa di importante. E, come in questo caso specifico,
anche qualcosa di concretamente vicino a una sorta di “guarigione”.
Ha mai assistito a casi simili?
Sì abbiamo assistito a dei casi
simili nel risveglio dal coma. Situazioni estremamente compromesse,
apparentemente senza possibilità, che poi invece si risolvevano per il meglio.
Come ho già detto, però, non tutti i casi vanno per il verso giusto quindi è
meglio evitare di alimentare facili speranze. L’importante è accompagnare ogni
caso, anche quello che appare più grave, con la stessa passione e la stessa
umanità, fino a riuscire a ottenere segnali di miglioramento e un ritorno
sostanziale a una “normalità”, intesa come una accettazione delle differenze.
In che modo scegliete di
assistere i vostri pazienti?
In questa struttura mettiamo in
pratica un grande percorso di accompagnamento del paziente e della famiglia
anche fuori da queste mura e da quelle dell’abitazione, per affrontare insieme
la più grande delle sfide.
Quale?
Il ritorno del paziente in una
società che lo accetta, che comprende il suo ruolo e le sue difficoltà. Anche
nei casi in cui non si assiste a un risultato o a una ripresa particolari, devo
ammettere che c’è sempre una grande volontà di accettazione nei confronti
propri e degli altri. E’ certamente un lavoro complesso e difficile ma è
importante vedere che negli ultimi anni le persone con un certo tipo di
difficoltà sono molto più accettate rispetto al passato.
Qual è l’aspetto più difficile?
Il fatto che troppo spesso si
pensa che in ogni occasione il paziente debba ritornare a una totale normalità.
Questo è l’aspetto più difficile da comprendere ma è davvero importante che si
riesca a raggiungere una piena accettazione anche quando esistono delle
evidenti difficoltà. Un nostro caro amico, Luigi, ha avuto un coma vent’anni fa
e dopo una lunga riabilitazione ha ripreso un ottimo grado di autosufficienza.
Adesso parla un po’ faticosamente ma si riesce a seguire senza particolari
difficoltà. Un giorno la trasmissione condotta da Paolo Bonolis, “Il senso
della vita”, si era detta interessata alla sua storia e aveva chiesto una
testimonianza. Gli mandammo così un’intervista fatta a Luigi ma decisero di non
usarla.
Come mai?
Perché non parlava bene. E’
questa la difficoltà maggiore e la più grande fatica culturale che la società
dovrebbe costantemente affrontare, proprio per capire a accettare tutte quelle
persone che, per diversi motivi, non parlano, non si muovono o non comunicano
come noi.
(Claudio Perlini)
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