LETTURE/ La lezione di Leopardi ai giustizialisti di ogni tempo di Valerio
Capasa, mercoledì 18 luglio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Legalità è una delle grandi
parole d’ordine dei nostri tempi. A scuola manca poco e nel Paradiso di Dante
gli insegnanti cercheranno il cielo della legalità al posto di quello delle
Stelle fisse, e al posto dell’inno alla Vergine ci metteranno la Costituzione.
Ma «la costituzione non è altro
che una medicina a un corpo malato»; «così una gamba di legno a chi ha perduto
la naturale» (Z 578-9). Parola di Giacomo Leopardi. Non basta la costituzione,
non basta la legge: anzi, «la stretta precisione delle leggi, istituzioni,
statuti governi ec. insomma delle cose, è sempre cresciuta in proporzione che
gli uomini e i secoli sono stati più guasti» (Z 473). Solo quando la
«corruzione degli uomini» appare ormai definitiva, si avverte il «bisogno di
stringere ed essere stretti con leggi, patti, obbligazioni» (Z 555), che
dovrebbero correggere quella corruzione.
È proprio qui che si annida,
però, il grande fraintendimento, «una gran fonte di errori ne’ filosofi,
massime moderni», i quali «considerano e misurano la natura con queste norme»
(Z 584): l’incommensurabile «natura» umana viene misurata attraverso «norme», e
in tal modo si precipita nell’illusione che i richiami moralistici e
legalistici siano in grado di risolvere il problema.
È vero piuttosto il contrario: la
vita «quanto più è regolata tanto più decade e vien meno» (Z 2668). E la grave
alterazione della modernità consiste per Leopardi appunto nel tentativo
sistematico di sostituire la natura dell’uomo con delle regole che dovrebbero
garantire una presunta felicità comune. Come scrive nella Palinodia al marchese
Gino Capponi, anziché prendere sul serio il desiderio di felicità del singolo
uomo,
novo e quasi
divin consiglio ritrovàr gli
eccelsi
spirti del secol mio: che, non
potendo
felice in terra far persona
alcuna,
l’uomo obbliando, a ricercar si
diero
una comun felicitade; e quella
trovata agevolmente, essi di
molti
tristi e miseri tutti, un popol
fanno
lieto e felice.
Le speculazioni sulla «pubblica
letizia» finiscono per dimenticare il desiderio della felicità, che è invece
«compagno inseparabile dell’esistenza» (Z 175).
lascia, mi disse,
i propri affetti tuoi. Di lor non
cura
questa virile età, volta ai
severi
economici studi, e intenta il
ciglio
nelle pubbliche cose. Il proprio
petto
esplorar che ti val? Materia al
canto
non cercar dentro te. Canta i
bisogni
del secol nostro, e la matura
speme.
Il punto è che, oltre a ridurre i
desideri del «proprio petto», «gli eccelsi spirti» che ciarlano sulle
«pubbliche cose» non riescono nemmeno a rispondere ai «bisogni del secol
nostro». E i discorsi sui diritti e sui doveri non realizzano altro che la
proiezione di un mondo inesistente:
niuna repubblica, niuno istituto
e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale, politico,
filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec. è mai
bastato né basta né mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe,
e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole
di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell’uomo verso l’uomo. (Z
2644)
Per dirla con altri termini dello
Zibaldone, «l’abuso e la disubbidienza alla legge, non può essere impedita da
nessuna legge» (Z 229). C’è bisogno di qualcosa d’altro, infatti, affinché la
legge possa reggere.
Leopardi lo esemplifica
distinguendo l’effetto delle leggi da quello del teatro: qual è infatti lo
«scopo» delle opere teatrali? «Ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che
le leggi non possono», in quanto il loro «uffizio» consiste nell’«ispirar
timore» dell’«effettiva esecuzione delle leggi penali». Se l’opera d’arte non
suscitasse odio, entusiasmo, squilibrio, se non muovesse il fondo della natura
umana, insomma, «meglio sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e
meglio ancora una lettura del codice penale». (Z 3448-9). Ma la «lettura del
codice» non tocca l’uomo: «leggi, pene, premi, costumi, opinioni, religioni,
dogmi, insegnamenti, coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori
di un’altra vita, niente ha potuto far mai, niente è né sarà bastante di fare,
che l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non
dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi» (Z 3775).
Di che cosa c’è bisogno allora
perché rinasca un amore alle leggi? «Tutti sanno con Orazio che le leggi senza
i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono
determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni» (Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, 447-8). Quali «opinioni»,
dunque, costituiscono il fondamento dei «costumi»? Davvero potranno essere
rintracciate nei corsi di educazione alla legalità o nei regolamenti? Il dubbio
è legittimo, anche perché, «se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno
aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema» (Z 4289).
Siamo in un tempo piccolo, per dirla con le parole di T.S. Eliot: «our age is
an age of moderate virtue / and of moderate vice» (Cori da «La Rocca», VIII).
È ovvio: «tolta alla virtù una
ragione presente, o vicina, e sensibile, e tutto giorno posta dinanzi a noi»,
leggiamo ancora nello Zibaldone, «è tolta anche la virtù: e la ragione lontana,
insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla natura della vita presente,
e delle cose in cui la virtù si deve esercitare, questa ragione, dico, non sarà
mai sufficiente all’attuale e pratica virtù dell’uomo, e molto meno della
moltitudine» (Z 2576).
Ecco l’indicazione di un punto di
partenza: ci vuole «una ragione presente» per muovere la virtù, non una
«ragione lontana» ed «estrinseca», perché nell’astrattezza delle ragioni non
rinasce la virtù. Non le norme, ma l’enorme: l’enormità dell’uomo, armato dei
suoi «desideri infiniti» (Sopra il ritratto di una bella donna). Le cose lontane,
anzi, vivono solo quando si incarnano nella «vita presente», quando perfino
l’infinito e «l’eterno» si affacciano all’orizzonte dello sguardo sulle cose
normali, sulla stagione «presente e viva».
Così, di fronte a una siepe, il
pensiero moderno può esser progredito fino al punto di legiferare che venga
protetta, curata, innaffiata, adottata, che nessun cane la sporchi, e che sia
difesa perché il verde pubblico è un diritto, come è un diritto la
sostenibilità ambientale ed è un diritto la salvaguardia ecologica, e tutti gli
studenti possono anche frequentare splendidi corsi sui diritti della siepe; ma
difficilmente purtroppo, davanti a quella siepe, ci verrebbe in mente
l’infinito, come invece accadde un giorno al ventunenne Giacomo Leopardi.
Bisogna ammettere che la distanza
fra i due atteggiamenti è siderale: perché se il cuore può respirare la
grandezza dell’infinito perfino al cospetto di una banalissima siepe, allora
quella siepe sarà guardata con una commozione immensa e sarà chiamata «cara»;
se invece lo sguardo la registra soltanto come una siepe, tutte le regole
saranno sentite come estrinseche e di fatto essa sarà trattata come un inutile
mucchio d’erba.
Mi pare che l’alternativa che il
poeta di Recanati continua a proporci si giochi qui: se di fronte a una siepe
c’è spazio soltanto per pensieri ecologici o anche per «pensieri immensi» (Le
ricordanze).
© Riproduzione riservata.
Nessun commento:
Posta un commento