Terapia del dolore, via libera dalla Conferenza Stato-Regioni - La
stagione in cui il prendersi cura diventa più importante del curare di Gian
Luigi Gigli, 27 luglio 2012, http://www.avvenire.it/
La Conferenza Stato-Regioni ha
finalmente approvato i «Requisiti minimi e le modalità organizzative necessari
per l’accreditamento delle strutture di assistenza ai malati in fase terminale
e delle unità di cure palliative e della terapia del dolore». Con questo
importante documento si dà corpo alla legge n. 38 del 2010, a suo tempo
unanimemente salutata come una scelta di civiltà.
La professione medica porta
inscritta nel suo Dna la lotta alla sofferenza e al dolore. Un obiettivo che
accompagna già le fasi della diagnosi e della terapia, per le quali è richiesto
di evitare o ridurre, per quanto possibile, la sofferenza che può accompagnare
le procedure cliniche. Un obiettivo che diventa fondamentale quando la scienza
medica non ha più armi per contrastare la malattia e prolungare l’aspettativa
di vita. È infatti nelle fasi di inguaribilità e di terminalità che le cure
palliative, per il controllo del dolore e degli altri sintomi che provocano
sofferenza, diventano l’obiettivo prioritario dell’équipe sanitaria. Esse
caratterizzano un modo di stare vicino al paziente che rifugge allo stesso modo
sia dall’accanimento che dall’abbandono terapeutico, e si prefigge piuttosto di
stare accanto al malato con la modalità dell’accompagnamento, fino alla fine.
In tal senso, le cure palliative prevedono il rispetto della dimensione sociale
e spirituale della persona che soffre, evitando deliberatamente di
medicalizzare tutto l’orizzonte dell’esperienza dell’uomo che soffre, nella
convinzione che esistano stagioni nelle quali il prendersi cura (possibile
sempre e potenzialmente illimitato) diventa più importante del curare (e capace
di superarne ogni limitatezza).
In questo processo il medico,
l’infermiere, lo psicologo, il volontario partecipano all’opera misericordiosa
di Gesù stesso. Seguendo il modello del Buon Samaritano, avvolgono il malato
con il mantello protettivo (pallium) delle loro cure, come fece san Martino di
Tours.
È significativo che ciò venga
riconosciuto dalle autorità sanitarie del Paese proprio nel momento in cui le
difficoltà di sostenibilità finanziaria del sistema salute sono sotto gli occhi
di tutti. Si tratta di una scelta di solidarietà a favore di segmenti
particolarmente fragili che riafferma la scelta solidaristica della nostra
società. È lecito tuttavia dubitare della capacità di aprire nuovi fronti di
spesa sanitaria da parte di molte regioni. Ciò sarà possibile solo se la spesa
regionale verrà riqualificata, evitando di disperdere il denaro pubblico in
finanziamenti di dubbia utilità e urgenza.
Un’ultima annotazione. Le cure
palliative non hanno nulla a che fare con l’eutanasia, esclusa dai programmi e
dagli statuti delle società scientifiche di riferimento, costituendo piuttosto
un’efficace prevenzione delle tentazioni eutanasiche. L’eutanasia, tuttavia,
può diventare un obiettivo se la sofferenza umana perde di significato e se una
posizione ideologica pensa di eliminare la sofferenza dalla esperienza
dell’uomo.
La sofferenza ci accompagnerà
sempre. Essa può aiutare ogni uomo a porsi interrogativi fondamentali sulla sua
propria esistenza e può educare chi ha la fortuna di star bene, offrendo
provocazioni che solo scioccamente si può pensare di anestetizzare.
Per noi credenti essa può
addirittura assumere un valore salvifico, permettendoci di partecipare
all’opera della redenzione, di noi stessi e di tutto il mondo.
Se la sofferenza cessa di essere
un’occasione di crescita personale, di accompagnamento e di solidarietà e viene
identificata con la perdita della dignità umana, allora le cure palliative
possono anche diventare il mantello per mascherare scelte di morte dalle quali
istintivamente aborriamo. È quando sta accadendo in alcuni Paesi con il
diffondersi della sedazione terminale come metodo non già per controllare il
dolore, ma come modalità indolore per metter fine a esistenze con cui ormai non
riusciamo a confrontarci.
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