UNIONI GAY/ Magatti: la "famiglia" di Pisapia impari da Gaber
di Mauro Magatti, lunedì 23 luglio 2012, http://www.ilsussidiario.net/
Il principio è quello della
differenza individualistica: siamo singoli individui e ciascuno, autonomamente,
decide per se stesso ciò che ritiene giusto, dato che non si riconosce alcun
tipo di autorità esterna che possa in qualche modo vincolare la volontà
individuale.
Un principio che ha due
corollari: il primo è che esistono tutte le differenze che esistono; il
secondo è che tutte le differenze sono,
e debbono essere, uguali. Come si dice, senza alcuna discriminazione, ovvero
equivalenti.
Questo modo di pensare ha
guadagnato molti consensi in questi anni. A destra come a sinistra. Anche
perché costituisce il trait d’union tra la visione libertaria della libertà -
basata sul principio antiautoritario - e
quella liberale - che si richiama, invece, alla insindacabilità della
scelta individuale. Non a caso, su molti temi si osserva una sorprendente
trasversalità in tutto l’arco politico.
Applicato alla famiglia, il
ragionamento è semplice. Dato che l’evidenza empirica dimostra che esistono
tendenze sessuali diverse, allora si deve trarre la conclusione legislativa:
per non essere discriminatoria, la legge non può che prendere atto della
realtà, equiparando le diverse forme di unione.
Dal punto di vista strettamente
logico, appare curioso che chi rivendica una differenza ambisca poi
all’omologazione al modello tradizionale. Perché di questo si parla: uguali
diritti per matrimoni etero- e omosessuali. Così che, chi chiede il “matrimonio
gay”, nel momento in cui vuole affermare una differenza, al tempo stesso la
nega: noi diversi, come tutti gli altri!
E invece, credo che, proprio per
il rispetto delle differenze, sia giusto chiedere che si continui a riconoscere
nello spazio pubblico - perché di questo stiamo parlando - la specificità del
matrimonio eterosessuale come unica forma sociale che è in grado di svolgere
contemporaneamente una duplice funzione: quella di costruire un sistema
complesso, flessibile ma solido, di legami intergenerazionali e quella di
stabilire una forma affettivo-sessuale equilibrata, paritaria e stabile. Non
per dire che non possono esistere altre forme che regolano questi aspetti, ma
per cogliere e affermare la primazia, l’insostituibilità e la non equivalenza
di quella straordinaria forma che è la famiglia cosiddetta naturale, basata
sulla dualità maschio-femmina e sul paradigma della relazione tra alterità,
dell’unione nella differenza.
La smemoratezza dell’Occidente su
questo punto è impressionante. Quasi che non riuscisse più a vedere che proprio
questa forma sociale originaria ha storicamente costituito una delle architravi
su cui la sua stessa storia si è costruita. Perché quella duplicità verticale
(intergenerazionale) e orizzontale (stabilità affettivo-sessuale) che definisce
l’unicum della famiglia ha permesso di definire una rete di obblighi,
riconoscimenti e legami su cui poi si sono sviluppate le forme economiche e
politiche occidentali, che non a caso si fondano sulla dignità e il valore
della persona che proprio nella famiglia trovano la loro prima elaborazione.
Avvitandosi nella spirale della
differenza individualistica, l’Occidente perde il senso tanto del passato
quanto quello del futuro. Del passato, perché si pensa di poter liquidare una
istituzione come quella famigliare senza pagarne il costo. Quasi che tutto ciò
che ci precede, con il carico di saggezza che contiene, possa essere buttato a
mare in nome della nostra pretesa di autodeterminazione. E del futuro, dato che
uno dei valori chiave della famiglia è riconoscerci dentro una storia che ci ha
fatto venire al mondo e che ci chiede a nostra volta di restituire il debito
alle generazioni future, mediante l’atto straordinario della genitorialità, che
non è mai né individualistico − si è sempre e comunque in due −, né transeunte, per cui si rimane
sempre genitori, anche se, per qualunque ragione, capitasse di non volere o non
potere esercitare la propria
responsabilità.
Eccoci così forse arrivati al
nocciolo della questione che spiega tanto accanimento: se presa sul serio, la
famiglia svela che non siamo degli io isolati e autodeterminati. La nostra
soggettività, così preziosa e irriducibile, si da sempre in rapporto ad altro,
ad una realtà che siamo invitati a riconoscere e ad accogliere per poter
diventare veramente noi stessi. Ma questa visione delle cose − che la
tradizione cattolica difende orgogliosamente − non è certamente quella della
differenza individualistica contemporanea, che invece è figlia della
onnipotenza tecnica − per cui tutto ciò che si può fare va ritenuto moralmente
lecito − e della onnipotenza soggettivistica − per cui ognuno deve realizzare
se stesso nella assoluta (o presunta tale) libertà.
Vengono in mente le parole così
penetranti dell’ultimo Giorgio Gaber: “La parola io/ questo dolce monosillabo
innocente/ è fatale che diventi dilagante/ nella logica del mondo occidentale/
forse è l’ultimo peccato originale”.
© Riproduzione riservata.
Nessun commento:
Posta un commento