Tu chiamala, se vuoi, empatia - Le emozioni altrui si capiscono dai
segni esteriori dal tono della voce, dal viso dai movimenti di mani e corpo, Sulla
scia di Obama, torna d'attualità la capacità di immedesimarsi negli stati
d'animo di un'altra persona. Ma come e perché è possibile?, MARCO BELPOLITI, 26/07/2012
- http://www3.lastampa.it
Nel 2006, parlando agli studenti
della Northwestern University a Chicago, Barack Obama stigmatizza l’esistenza
dell’«empathy deficit». Il riferimento all’empatia come fatto positivo è assai
frequente nei discorsi del presidente americano, mentre sembra quasi assente
nel frasario del suo predecessore, George W. Bush. Tre anni dopo il primatologo
Frans de Waal pubblica un saggio, L’età dell’empatia , e nel medesimo anno esce
il libro dell’economista e futurologo Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia .
Da quel momento in poi il tema si diffonde a macchia d’olio e diventa sempre
più consueto parlare della capacità di immedesimarsi in un’altra persona fino
al punto di coglierne i pensieri e gli stati d’animo. Ma cosa significa
esattamente «empatia»? Perché e come è possibile «mettersi nei panni degli
altri?
Uno studioso di estetica, Andrea
Pinotti, spiega in un ampio studio apparso da poco ( Empatia. Storia di un’idea
da Platone al postumano , Laterza), che il termine viene dal greco empatheia ,
composto da en , in, e pathos , affetto; tuttavia a noi moderni la parola
arriva dal tedesco: Einfühlung , da ein , dentro, e Fühlung , emozione,
equivalente dell’inglese feeling , termine che usiamo con una certa frequenza.
Come si fa a capire l’emozione che c’è dentro l’altro? Dai segni esteriori,
dalle espressioni del viso o degli occhi, dal tono di voce, dai movimenti delle
mani e del corpo. Insomma guardando il «fuori» per capire il «dentro»
dell’altro, un dentro che è altrimenti inaccessibile.
A introdurre nel nostro lessico
questo termine sono stati due romantici tedeschi, J. G. Herder e Novalis, che
usarono il termine Einfühlung per spiegare la risonanza che gli oggetti
estetici (opere d’arte, quadri, statue, poesie ecc.) hanno nell’animo delle
persone. Insomma, come ha ben inteso Obama, l’empatia richiede un assetto
ricettivo, e insieme una virtù proiettiva, dal momento che capiamo gli altri a
partire da noi stessi. Herder lo aveva scritto a chiare lettere: «Nel grado di
profondità del nostro amor proprio sta anche il grado della nostra simpatia nei
confronti degli altri, poiché in un certo modo possiamo sentire noi stessi solo
negli altri». La comprensione dell’altro avviene per via analogica. S’appella
all’empatia nei suoi interventi televisivi Roberto Saviano, e parla di empatia
per spiegare il successo del suo ultimo libro, Fai bei sogni , Massimo
Gramellini; e altrettanto potrebbero fare autori di canzoni di successo e di
film di cassetta.
Ma si tratta di un sentimento che
attraversa tutte le culture in tutti i tempi? Pinotti cita uno studioso
giapponese della sfera emotiva, Takie Lebra, che spiega come nella sua lingua
non esista la parola; quella che più si avvicina sarebbe omoiyari , che
suggerisce l’identificazione con una condizione di vita migliore della nostra e
non con lo stato sofferente di chi è messo peggio di noi. Bisogna però fare una
distinzione tra «compassione» e «empatia»; la filosofa Martha Nussbaum in
Intelligenza delle emozioni (il Mulino), spiega che l’empatia si prova prima di
tutto in situazioni gioiose, mentre la compassione funziona solo nei confronti
di chi si trova in uno stato negativo. Dunque, molti dei sentimenti empatici
suscitati da situazioni di sofferenza si devono attribuire più precisamente
alla compassione.
Detto questo, resta il problema
da dove sorga l’empatia. Le neuroscienze ci hanno fornito da poco una
spiegazione: i neuroni specchio. Giacomo Rizzolatti e i suoi collaborati hanno
rilevato l’esistenza di neuroni che permettono di comprendere i gesti degli
altri proprio come se li stessimo compiendo noi; è quella che Vittorio Gallese
ha chiamato «simulazione incarnata». Ma se le cose stanno così, se tutti
abbiamo i «neuroni specchio», come spiegare azioni quali quelle
dell’attentatore dell’aeroporto di Burgas, di qualche giorno fa, o dello
sparatore di Denver, durante il film di Batman, e gli altri terribili casi
degli anni scorsi?
La domanda è cruciale e uno
studioso di Cambridge, Simon BaronCohen, cerca di darci una risposta in La
scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà (Cortina), pubblicato
in queste settimane. Vi sarebbero due tipi differenti di situazioni che
contemplano un abbassamento a zero del grado di empatia presente nelle persone:
una negativa e una positiva. Al primo gruppo, analizzato in dettaglio da
BaronCohen, appartengono i , gli psicopatici e i narcisisti; mentre i primi due
possono commettere atti crudeli (lo psicopatico percepisce perfettamente quando
fa il male), il terzo è solo fortemente egocentrico, ma non riesce, come gli
altri due, a riconoscere l’importanza della bidirezionalità nelle relazioni. Al
gruppo zero positivo appartengono invece coloro che sono affetti dalla sindrome
di Aspenger, resa celebre dal film Rain man , e più in generale tutte le
persone autistiche.
Questa parte dello studio dello
psicologo suggerisce considerazioni interessanti sulla mancanza di empatia e
sulla contemporanea capacità, che possiedono queste persone, di analizzare solo
una cosa per volta, in modo ossessivo, e spesso geniale. L’empatia richiede
infatti di contemplare contemporaneamente, e ad alta velocità, punti di vista
diversi e stati d’animo fluttuanti nel corso dell’interazione sociale. Non
sempre noi tutti siamo così rapidi e capaci di sintonizzarci sulla lunghezza
d’onda dell’altro. Forse, al contrario di quanto pensano i neuroscienziati, non
basta la fisiologia, ci vuole anche un po’ di ideologia, ovvero di allenamento
continuato e costante, offerto dalla società, all’altruismo introspettivo.
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