Matrimonio, omosessualità e verità umana- Se l'Occidente perde il senso
del futuro di Francesco D'Agostino, 27
luglio 2012, http://www.avvenire.it/
Luigi Urru, antropologo culturale
dell’Università di Milano Bicocca, mi scrive per criticare la perentorietà con
la quale ho affermato, su queste colonne lo scorso 18 luglio, che «il
matrimonio è uno e uno soltanto in tutte le culture e in tutti i tempi». Le
cose non starebbero affatto così: basterebbe la succinta rassegna etnografica
delle diverse tipologie familiari fatta da Francesco Remotti nel volume “Contro
natura” per convincere tutti (me compreso) dell’esatto contrario.
Accetto di buon grado l’augurio
di buona lettura che mi rivolge Urru, con un pizzico di garbata ironia, ma non
per quel che riguarda il libro di Remotti, al quale a suo tempo (per
l’esattezza il 7 marzo 2008) ho dedicato la dovuta attenzione, con un articolo,
pubblicato da “Avvenire” dal titolo (ovviamente redazionale) «L’antropologo scava
la fossa alla famiglia». Mi sono appassionato alle diverse (e per noi
terribilmente esotiche) pratiche familiari dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei
Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc., che Remotti cita per dare consistenza a
questa sua tesi: la famiglia, non solo come istituto di diritto naturale, ma
addirittura come concetto unitario, non esisterebe; al più si potrebbero
individuare nelle varie culture «gruppi domestici», cioè diverse tipologie di
aggregazioni sociali, che avrebbero una qualche somiglianza tra di loro.
Rimando Urru, augurandogli a mia
volta “buona lettura”, a quel mio articolo, che peraltro ho successivamente
ripreso in un libro che ho dedicato alla filosofia della famiglia e che Urru,
se vorrà, non avrà difficoltà a procurarsi. Vorrei semplicemente sfruttare
questa occasione per riconoscere che sul piano etnografico Urru, Remotti e
tanti altri etnologi che hanno scritto prima di loro hanno ragione da vendere.
Tutte le pratiche (se vogliamo chiamarle così) elaborate nella storia dalle diverse
culture, dal linguaggio alla religione, dall’arte alla politica, dal diritto al
lavoro, fino all’articolazione stessa dei valori e dei sentimenti, sono
caratterizzate da infinite gradazioni e variabilità. Gli etnografi fanno bene a
ricordarcelo, per impedirci di cedere alle suggestioni di un giusnaturalismo
“ingenuo”, pronto a qualificare le “nostre” pratiche come “naturali” e quelle
altrui come “contro natura”.
Ciò detto, resta come un punto
fermo di carattere antropologico (e qui l’antropologia filosofica aggiunge la
sua voce a quella dell’antropologia culturale) che tutte le pratiche culturali
sono espressione di poche, essenziali, “vere”
esigenze umane fondamentali: la comunicazione per il linguaggio, la coesistenza
per il diritto, la salvezza per la religione, la bellezza per l’arte,
l’identità trans–generazionale per la famiglia. Se si arriva a riconoscere
tutto questo, è necessario fare poi un ulteriore passo avanti, molto
impegnativo, ma ineludibile: non tutte le pratiche culturali riescono nella
storia a tutelare e a promuovere con la stessa efficacia le comuni esigenze
umane fondamentali cui si è accennato. L’ antropologia ha pienamente ragione
quando sottolinea la pari dignità di tutte le culture, ma ha torto –
trasformandosi in un indebito relativismo antropologico – quando cerca di
dimostrare che tutte le culture hanno la stessa capacità espressiva: è la
stessa “storia” a fare giustizia delle forme di cultura più deboli, facendo
emergere, consolidare e diffondere le forme di cultura che più si avvicinano
alla “verità” dell’uomo (senza mai peraltro poterla esaurire).
E’ in tal senso che va letta
l’espressione, indubbiamente imprecisa, che ho utilizzato e che Urru mi
rimprovera. Se in prospettiva etnografica è scorretto affermare, come ho fatto
io, che il matrimonio «è uno e uno
soltanto» in tutte le culture, non lo è in una prospettiva di antropologia
filosofica, perché la verità dell’uomo non consiste solo nelle relazioni
affettive e amicali (che possono essere anche omofile), ma nella sua vocazione
generazionale (che invece è preclusa alle coppie omosessuali, se non al prezzo
di palesi manipolazioni del vivente). Tutte le culture dimostrano, per il solo
fatto di sopravvivere, di avere a cuore la loro sopravvivenza e tutte le
culture creano istituzioni sociali finalizzate a questo scopo, all’interno
delle quali l’omosessualità non ha riconoscimento pubblico.
Che oggi sia dilagante la
propensione a chiamare “matrimonio” un rapporto omosessuale (per quanto
profondo esso possa essere) dimostra soltanto come, in questa fase della sua
storia, l’Occidente, minimizzando la
vocazione generativa del matrimonio, stia perdendo il senso del futuro. E’ su
questo, più che sulle pur affascinanti pratiche culturali dei Na, dei Nayar,
dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc. ecc., che dovremmo tutti
seriamente misurarci.
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