IL CASO/ La natura, Dio e l'errore di Gianni Vattimo di Michele Lenoci,
martedì 17 luglio 2012, http://www.ilsussidiario.net/
Spesso i dibattiti più fervidi
nascono da autentici equivoci: tuttavia, qualche volta mettono in luce
questioni meritevoli di riflessione, che non possono essere eluse con una
semplice battuta. La scoperta della particella di Higgs costituisce uno di questi
casi: prevista a livello teorico, ma finora mai rinvenuta sperimentalmente, è
stata per anni inseguita, per corroborare il cosiddetto Modello Standard,
elaborato nella seconda metà del secolo scorso, allo scopo di offrire un quadro
teorico unitario capace di abbracciare meccanica quantistica e relatività
speciale e di collegare tutte le particelle elementari e le forze che le
connettono, con esclusione della forza di gravità. Tale particella, detta anche
bosone, ha una funzione centrale rispetto a tutte le altre, giacché le
costringe a interagire e ad aggregarsi tra loro, in modo che, rallentate
dall’attrito (e non viaggiando più alla velocità della luce), acquisiscono una
massa che prima non avevano. E in tale processo anche il nostro bosone acquista
una sua massa. Ecco perché la scoperta di tale particella è stata salutata come
un evento epocale.
Ma il bosone di Higgs è stato
anche chiamato “particella di Dio”, grazie all’equivoco probabilmente voluto
dall’editore di un volume del fisico Leon Lederman, a esso dedicato, che
avrebbe dovuto intitolarsi The Goddam Particle, cioè “la particella maledetta”,
in quanto sempre sfuggevole. Ma il testo apparve come The God Particle: con un
titolo che, dal punto di vista della fisica, non ha alcun senso, ma è stato, in
compenso, molto suggestivo. E con questo chiarimento la questione sarebbe
risolta, in quanto dissolta: Dio, con questa particella, non c’entra affatto,
né, con quel nome, si sarebbe mai preteso di ritrovare Dio in una nicchia
dell’infinitamente piccolo, come qualcuno aveva, una volta, preteso di
incontrarlo nello sterminato spazio intorno alla terra.
Tuttavia, non pochi hanno
giustificato quel nome e il riferimento a Dio, non solo considerando la
difficoltà di afferrare quella particella, ma forse pensando alla sua funzione
di attribuire la massa alle altre particelle, consentendo il costituirsi del
nostro mondo materiale. E allora nei dibattiti, costruiti su tale equivoco, ha
fatto lentamente capolino un’altra questione, questa sì rilevante, anche se solo
occasionalmente connessa con la scoperta dei giorni scorsi: ha senso pretendere
di scoprire Dio all’interno della natura, quasi ne fosse, se non la causa prima
o il primo anello, come un tempo si riteneva, almeno un costituente essenziale,
un elemento peculiare?
E qui, al primo equivoco (che può
essere facilmente dissolto) rischia di aggiungersene un altro più sottile e
resistente, giacché Dio può essere ricercato (e trovato) nella natura in modi
assai diversi. Nessuno che ricordi Platone o Aristotele, Agostino o Tommaso
penserà di trovare Dio tra le particelle elementari: Dio è detto intimo e
intrinseco a tutta la realtà, non su un piano fisico, empiricamente
rintracciabile, ma in quanto è quell’Essere che consente a tutti gli enti
(materiali e non) di esistere, giacché essi sono privi di autonoma consistenza
ontologica e, quindi, sarebbero travolti dalla loro vertibilitas in nihilum.
Si tratta perciò di una presenza
effettiva ed efficace, non di una mera finzione da noi inventata, ma di una
dimensione che, in parte, trascende le nostre capacità di comprensione e di
espressione, e per questo dobbiamo fare ricorso a molteplici simboli. Tuttavia
anche chi non dimentica quella storia filosofica tende ad affermare che
anch’essa si collocava in una prospettiva inevitabilmente cosmologica, connessa
con la scienza del tempo, sicché anche chi pensava di poter dimostrare
l’esistenza di Dio, poteva tentarlo solo facendo ricorso alla fisica, in un
modo certamente molto più elaborato e sofisticato, ma qualitativamente non
diverso da chi oggi parla di una “particella di Dio”.
Qui però l’equivoco nasconde (e
lascia presupposta) una precisa concezione filosofica, che va posta in chiaro e
messa a tema: è il motivo per cui, all’inizio, si diceva che certi equivoci
fanno emergere questioni su cui riflettere. Certamente, se oltre al sapere
scientifico non fosse possibile altra conoscenza razionale e rigorosa,
resterebbe solo questa alternativa: o Dio lo si trova tra gli elementi della
fisica (e per parlarne si deve, alla fine, fare sempre e solo una cosmologia)
oppure Dio è solo una metafora, un mito essenziale per la nostra esistenza e
per dare un senso all’umana storia (in quanto distinta dalla mera evoluzione
della natura), ma non potrebbe essere affermato con verità nella sua realtà e
nel suo rapporto con il mondo (ammesso che verità e realtà abbiano ancora un
significato ulteriore a quello, assai delimitato, posseduto dal sapere
scientifico). È l’atteggiamento che, anche recentemente, ha manifestato con
grande chiarezza Gianni Vattimo.
Ove, invece, la razionalità umana
non si restringa a quella applicabile alla realtà empirica, nei suoi aspetti
quantitativi e calcolabili, ma si allarghi ad afferrare e comprendere anche
dimensioni strutturali e universali, “trascendentali”, del reale, pur sempre
cercando di argomentare con rigore, allora si dischiude uno spazio per la
riflessione ontologica e metafisica, grazie alla quale a Dio si può pervenire
anche muovendo dalla natura, senza però confonderlo con alcuno degli elementi
naturali. E Dio può essere, in qualche modo, compreso anche concettualmente,
sia pure in maniera inadeguata, senza che perciò si riduca a un mito meramente
consolatorio e rassicurante. E in questa prospettiva, ci si può pure chiedere
se la storia umana abbia un senso, quale esso sia e se possa essere conosciuto
scientificamente.
Natura e storia, pur muovendosi
nella stessa direzione, hanno percorsi diversi; la necessità o casualità della
prima lascia, nella seconda, ampio spazio all’umana libertà e all’imprevedibilità:
l’affermazione per cui la storia ha un senso non equivale alla pretesa di
conoscere questo senso in modo esauriente e totalizzante, né esclude quel
mistero, che, anzi, rende la ragionevolezza più vera e umana, proprio perché
più consapevole dei propri limiti costitutivi, oltre che delle proprie
possibilità.
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