Perché mente e coscienza non sono un epifenomeno - L’eventuale
comprensione della mente postula una rivoluzione scientifica - di Giorgio
Masiero, fisico, 25 settembre, 2012, http://www.uccronline.it
È quasi impossibile trovare oggi
in un articolo di biologia termini come “mente” o “coscienza”, al cui posto
leggeremo: neuroni, proteine, sinapsi e così via…, donde d’improvviso – con un
salto dalla prosa scientifica alla poesia immaginifica – la mente è spiegata
come “ciliegina sulla torta” (E. Boncinelli) o “fischio della locomotiva” (A.G.
Cairn-Smith). Il termine ufficiale usato dal conformismo riduzionista è
“epifenomeno” (un’invenzione del “mastino di Darwin”, T.H. Huxley), che
significa “fenomeno derivante da un altro”: siccome però nel mondo tutti i
fenomeni derivano da altri (proprio nello studio delle loro concatenazioni
causali consistono le scienze) e “poiché là dove mancano i concetti, s’offre,
al momento giusto, una parola” (J.W. von Goethe, “Faust”), il termine serve
solo, secondo il diavolo, a celare la mancanza d’ogni concetto a riguardo di
cosa sia la mente.
La paroletta di Huxley non è
tanto un’ovvietà, ma uno sproposito, perché la mente non è un fenomeno.
Fenomeno (dal greco “fàinomai” = mostrarsi) è tutto ciò che ci appare davanti,
manifestamente: l’alternarsi del giorno e della notte, le fasi della luna,
l’evaporare dell’acqua all’aria e l’abbronzarsi della pelle al sole, lo
sbocciare dei fiori a primavera e la caduta delle foglie in autunno, ecc. È un
fatto però, che di nessuno la mente ci appare. La mente piuttosto è il
tribunale recondito davanti a cui tutti i fenomeni compaiono: i fenomeni sono
gli oggetti delle apparizioni, la mente è il soggetto invisibile che li vede e
giudica. Tanto è potente e allo stesso tempo misteriosa la caratteristica
dell’uomo da far dire ad Euripide: “La mente in ciascuno di noi è un dio”.
La coscienza pure non è un
fenomeno, ma consiste nel flusso degli stati vissuti da un Io. Neanche
nell’intimità dell’amore appare all’amante la coscienza dell’amata– che cosa le
frulli per la testa, le passi nel cuore o ella provi nei sensi –, e l’uno si
deve accontentare (dei fenomeni esteriori) delle parole e dei gesti dell’altro.
Nello stato detto “autocoscienza” la coscienza appare a sé, non come oggetto
esterno, ma ancora come un particolare stato vissuto dall’Io. C’è dell’altro
che questi super-semplificatori mostrano d’ignorare. Per loro, le neuroscienze
spiegano la mente come un fenomeno della struttura biologica e
dell’organizzazione fisiologica del sistema nervoso centrale; i livelli
biologici e fisiologici si spiegheranno, “molto presto” annunciano da
cent’anni, con reazioni chimiche; e queste, si sa, si spiegano già in fisica
con le interazioni delle cortecce elettroniche degli atomi.
La fisica però non si ferma agli
atomi e ai quark, ma tira in ballo anche i campi quantistici e l’osservatore.
Ogni sistema atomico, infatti, vi è descritto con una distribuzione (questo è
un campo) di tutti i valori delle grandezze fisiche e solo l’esecuzione di una
prova ne determina i valori attuali – l’autostato, che è relato alla coscienza
(collettivamente elaborata) del team controllante l’apparato sperimentale –. Un
evento fisico è inseparabile dal campo quantistico in cui è immerso e
dall’interferenza dell’osservatore intelligente che, approntandone la
preparazione ed osservandone l’evoluzione, lo fa iniziare in un autostato e
precipitare infine in un altro. “Non è possibile una formulazione coerente
della meccanica quantistica che non faccia riferimento alla coscienza” (E.
Wigner, Nobel 1963 per la fisica). Così la mente, declassata dal semplicismo
riduzionista a fenomeno secondario delle attività cerebrali, è promossa dalla
scienza fondamentale a statuto primario di tutti i fenomeni. Il loro tribunale,
appunto. Come avanziamo, allora, nello studio della mente se non con
un’introspezione di come l’Io di ognuno appare a Sé?
Che cos’è il mio Io? Qual è il
mio nocciolo duro, se c’è, al netto del mio corpo? Sfoglio un album di vecchie
foto in bianco e nero e mi vedo a 6 anni nella bottega di papà, che ora non c’è
più, in uno scatto fatto da Callisto, il postino di paese; a 7 anni, con la mia
bellissima mamma, sul cui viso oggi è scolpito il disincanto: posiamo
sorridenti lungo un viale alberato per la gioia di Fai, un eccentrico
personaggio locale; ecc., ecc. Non conosco parole per descrivere il flusso
nostalgico di tenerissimi ricordi che mi avvolge, stringendomi il cuore,
arrossandomi il viso ed inumidendomi gli occhi. Riconosco a fatica vaghi
lineamenti di me in quelle foto ingiallite e mi chiedo ancora: in che cosa
consiste la sostanza dell’Io, che permea ogni fibra del mio corpo? Essa certo
non coincide con i 10^27 atomi di turno che lo compongono: al mio corpo sono
affezionato anche nei difetti perché è comunque parte di me, ma non posso
identificare una parte di me col mio Io intero. So bene che l’Io dipende in
tutto dal corpo, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Però, se un organo
non vitale mi venisse a mancare, o uno vitale diverso dal cervello mi fosse
trapiantato da un donatore, non per ciò ammetterei che non sono più io, anche
se non mi riconoscerei identico a prima.
E il cervello? in che rapporto
sta con l’Io? Il confronto tra un uomo ed un computer forse mi aiuterà a
procedere. Tutto il mio corpo è hardware, compreso il cervello che svolge i due
ruoli che nel calcolatore hanno il disco per la conservazione dei dati ed il
processore per la loro elaborazione. E cosa corrisponde in me al software,
senza cui un computer è più inutile di un ferro vecchio? Il software è una
sequenza di operazioni matematiche (infine, un numero), che indica al
processore come elaborare i dati salvati nel disco o inseriti dall’esterno.
Esso è memorizzato nel disco, o nel cloud che è comunque un server da qualche
parte. D’acchito mi verrebbe d’identificare la componente volitiva dell’Io con
un software, perché è l’Io che ordina al cervello come elaborare le
informazioni conservate nella memoria o che gli stanno provenendo dai sensi.
Proseguendo nell’analogia dovrei riconoscere che, come il software d’un pc sta
in un disco, così la mia Volontà è basata nell’encefalo. Ma il paragone è
miserrimo, perché ogni software è un puro numero: non vive, né sa di essere;
non pensa; è stato scritto dall’Io d’un programmatore umano e nelle stesse
circostanze ripete le operazioni che gli sono inscritte. Il mio Io, invece,
respira la vita; pensa; pensa di pensare; non è stato programmato (da alcun
super-Io) e sa di godere di arbitrio libero, pur se condizionato dal corpo e
dall’ambiente. L’Io è vivente, cogitante, autocosciente e dotato di una volontà
che avverte l’imperativo morale altro da Sé, mentre nessun software è l’ombra
di ciò! La parola che si usa da sempre per denotare l’insieme di quelle facoltà
è: anima (dal sanscrito “atman” = soffio vitale). Ecco il nucleo del mio Io dal
concepimento: è l’unità indissolubile di un corpo e di un’anima.
Nei primi anni di vita la Volontà
della mia anima era scandita esclusivamente dall’istinto alla soddisfazione dei
bisogni del corpo, ma col tempo l’interscambio tra il suo mondo interno ed il
mondo esterno (il latte materno, l’educazione familiare, il contesto sociale,
ecc.) l’ha forgiata in scelte, fatte inizialmente su valori e sensi parziali,
che con gli anni sono cresciuti ad una matura, integrale Weltanschauung. Il mio
Io è cresciuto sulla spinta di questa Volontà ed oggi gli appartengono la
memoria delle cose apprese e delle esperienze fatte ed il bene e il male
derivati anche per mia responsabilità alle persone che ho influenzato. Le mie
decisioni hanno concorso a costruire l’Universo attuale al posto d’infiniti
altri universi potenziali: chi può sapere che cosa di buono il mondo ha perso
per i miei errori ed omissioni, e perdonarmi per essi? Ora, durante questa mia
auto-analisi, pensiamo che un neuroscienziato abbia osservato con un sistema di
sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del mio corpo e dalle loro
misure abbia calcolato con un modello matematico i pensieri della mia anima.
Ammessa l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua
all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data dal mio
stesso racconto è stata carente, può un numero, qual è la risposta d’un
apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri ed
emozioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul mio corpo non è la stessa cosa
dei pensieri vissuti dalla mia anima: ciò che ho vissuto pensando quei pensieri
appartiene al mio Io interno ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche
osservate dall’Io (a me esterno) del neurologo.
L’alterità tra stati psichici e
grandezze fisiche vale nei due versi e, come vieta il cortocircuito del
riduzionismo materialistico, così nega quello inverso del riduzionismo
idealistico contemporaneo – della filosofia analitica e del neopositivismo, per
intenderci – secondo cui gli oggetti fisici “hanno lo stesso fondamento degli
dèi di Omero” (W.V. Quine, filosofo ad Harvard), essendo solo i costrutti
mentali delle percezioni dimostratisi più utili in ogni epoca, al punto che
“noi sappiamo, per dimostrazione, che la Luna non è più là quando non la
osserviamo” (N.D. Mermin, fisico alla Cornell). Resta la terza via del buon
senso, un realismo che prende atto dell’esistenza sia di oggetti fisici che di
stati dell’anima, e della loro alterità irriducibile fatta salva la loro
coesistenza nell’essere umano. Io so anche che il mio Soggetto interno è
intravisto come oggetto esterno dagli altri Io (quelli delle persone con cui
entro in relazione), e viceversa: la coesistenza e l’ambiguità ontologica
falsificano il dualismo cartesiano, secondo cui l’alterità implica una radicale
separazione (che infine, per il ruolo guida assegnato alla “res cogitans” sulla
“res extensa”, si traduce in monismo spiritualistico). Come potrebbe la mia
Volontà ordinare al deltoide di sollevare il braccio, se l’anima ed il muscolo
appartenessero a mondi disgiunti? Forse inserendo un ponte tra i due, cioè con
un terzo mondo, e così via all’infinito?! “Il corpo non è unito in modo
accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso
essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi” (Tommaso d’Aquino,
“Quaestio disputata de anima”). Insomma la realtà di questo mondo è una, una
sola, ma è molto diversa da come ce la raccontano i riduzionisti delle due
scuole; e la sua trama è molto, molto più complessa di quanto speculino oggi
anche i fisici più creativi.
Chi prima delle equazioni di
Maxwell (1861) e degli esperimenti di Hertz (1886) avrebbe immaginato la realtà
dei campi, quando per i materialisti di allora tutto era solo atomi e moto? Chi
prima della sintesi di Einstein (1915), quando spazio e tempo erano
universalmente considerati contenitori inerti dei fenomeni (due “forme a
priori” della mente, per gli idealisti di allora), avrebbe pensato lo
spazio-tempo come una struttura dinamica reale, che ordina alla materia come
muoversi ed è da essa ordinata come incurvarsi? Quando ho scritto che
l’auto-interazione del campo di Higgs crea il bosone omonimo, un lettore mi ha
obiettato: “Ma di che è fatto il campo, se non delle medesime particelle? […] è
come se Lei ci dicesse che un oceano interagendo con se stesso determina le
molecole di cui è costituito”, testimoniando la persistenza anche in ambienti
colti (e religiosi) di un pregiudizio materialistico e meccanicistico, di cui
la fisica s’è liberata 150 anni fa. Quando si prenderà atto che l’evidenza
dell’esistenza di un oggetto non è data in fisica dalla sua osservabilità
(qualcuno ha mai “visto” un quark top?), ma coincide con l’efficacia delle sue
proprietà matematiche a predire regolarità di Natura altrimenti giudicate
accidentali?
A sciogliere il problema del
sinolo dell’Io, di questa unità tanto oggettivamente materiale se vista da
fuori quanto soggettivamente mentale se vissuta da dentro, non saranno né la
biologia molecolare, né le neuroscienze, e neanche la fisica ultima
dell’altisonante “Teoria del Tutto”…, che poi è la geometria delle stringhe e
del multiverso, ovvero una cinematica di cordicelle e tamburini vibranti in uno
spazio (“bulk”) a 10-11 dimensioni: questo esercizio è condannato fin
dall’inizio a fallire il bersaglio, perché carica la complessità dell’essere
non sulla struttura matematica degli oggetti (ipoteticamente fondanti il “Tutto”
comprensivo della mente), bensì sulla topologia super-dimensionale del bulk che
ne ospita i giochi. No, per tentare la scalata alla montagna dell’Io – alla sua
parete fenomenica, almeno – ci occorrerà una scoperta altrettanto eversiva di
quelle del campo elettromagnetico e della relatività, e più probabilmente un
cambio del paradigma epistemologico che superi la “vecchia”, a ciò visibilmente
impotente, rivoluzione scientifica.
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