Eutanasia: ecco perché il suicidio è l’ossessione della società laica -
In una società cristiana la vita ha un valore perché è donata, non in quella
secolarizzata - di Francesco Agnoli, scrittore e giornalista, 20 settembre,
2012, http://www.uccronline.it
Ovunque vada, Beppino Englaro,
viene accolto da una folla, plaudente, quasi entusiasta. E’ una di quelle
persone che riescono ancora a tirar fuori la gente di casa. Ma chi siete andati
a vedere?, verrebbe da chiedere. Recentemente Englaro è venuto in un paesino
della mia terra, Mezzolombardo, in cui 400 persone, su invito di un assessore
che proviene dal PATT (forse l’unico partito in Italia che nello statuto si
propone di seguire la dottrina sociale della Chiesa), avevano firmato la
richiesta perché si introducesse nel comune il testamento biologico. Quel
testamento, poi, non lo ha firmato nessuno. Perché una cosa è plaudire al
principio secondo cui chi vuole morire, deve poterlo fare quando vuole, altra
cosa invece è pensare alla propria morte, e all’eventualità che un giorno
qualcuno ci aiuti ad andarcene, magari con troppo fretta o superficialità…
Tante firme, dunque, nessun
testamento, e tanti ad applaudire Englaro. Mi viene da pensare che sia solo
questione di tempo. L’eutanasia, se le cose continuano così, entrerà a breve in
tutte le legislature europee. Chi si batte per la vita, deve ovviamente lottare
anche sul fronte delle leggi. Ricordando, però, che se la battaglia rimane
ferma lì, a vincerla sarà solo chi, come i radicali, ha la pazienza di erodere
un confine alla volta. La battaglia vera è ancora una volta teologica.
Perché l’eutanasia, come il
suicidio, in ogni tempo, ci porta ad una sola domanda: esiste Dio? In una
società in cui il senso di Dio è presente, in cui Dio è Creatore e amico dell’uomo,
l’eutanasia non entrerà mai. In una società, invece, in cui Dio è espulso dalla
vita di ogni giorno, il suicidio è inevitabile. Da un punto di vista logico, è
facilissimo da comprendere: Cristo, infatti, cioè un Dio “con noi”, rende ogni
vita, e ogni morte, quale che essa sia, degna di essere vissuta. Ogni vita,
perché la vita ha senso solo se ha un respiro che vada al di là dei muri di
questo mondo; ogni morte, perché ogni morte è un evento vero e significativo
solo se apre a qualcosa. Altrimenti è un non evento.
Ma questa verità può essere
compresa anche da un punto di vista storico. Il sociologo Marzio Barbagli, nel
suo “Congedarsi dal mondo”, ci ricorda che nel mondo cristiano il suicidio era
più raro, ed è invece più diffuso laddove la società è più secolarizzata (nei
regimi atei si raggiunge sempre il top). In un mondo cristiano la vita è
anzitutto dono di Dio: un dono non si butta via, non si spreca; ed è anche un
compito: un compito da portare a termine. Dio ci dona la vita, ma ce ne chiede
anche conto. Chi crede in Lui, dunque, vi attinge fede, speranza e carità:
fede, cioè fiducia che tutto ciò che accade, anche il male, sia in fondo grazia
perché anche dal male si può trarre il bene; speranza, cioè certezza nella
presenza di Dio accanto a noi; carità, cioè amore, per Dio, ma di conseguenza
anche per noi stessi, sue creature, e per chi ci sta vicino (per cui uccidersi
diventa tradire l’amore, per Dio, per sé, per gli altri che ci amano).
A fermare il gesto estremo di
molte persone, nella società cristiana, ricorda sempre il Barbagli, furono
spesso, oltre all’amore per Dio, la paura dell’inferno e la consolazione della
confessione. L’uomo di fede sa dunque che, come di fronte al male fisico vi è
sempre la possibilità di affrontarlo, così di fronte a quello morale, non si è
mai definitivamente sconfitti dalla propria colpa, dal senso della propria
miseria. In varie culture esiste il “suicidio di vergogna”, come ammissione di
un fallimento: nel cristianesimo, nessuno è mai fallito del tutto, perché tutti
possono rinascere a vita nuova, perdonati da Cristo, lavati dal suo sangue.
Infine, nota sempre il Barbagli, la società cristiana aveva una forte coesione
sociale: ciò significa che l’esistenza di una famiglia salvava tantissime
persone dalla disperazione, vuoi perché sperimentavano l’amore di qualcuno,
vuoi perché sentivano, nei suoi confronti, un forte senso del dovere.
Se tutto questo è vero, vivere è,
nelle società di fatto atee e secolarizzate, un impegno sempre più gravoso:
siamo soli, esistenzialmente, se Dio non c’è (senza una fede e una speranza che
siano soprannaturali e non soltanto buoni auspici). Non amiamo Dio, né lo
temiamo, né ne cerchiamo il conforto ed il perdono.
Inoltre proprio l’aver scacciato
Dio dalla nostra vita, ci consegna al nostro egoismo, all’individualismo: non
per caso viene oggi a mancare anche la coesione sociale. La famiglia è sempre
più disgregata e ridotta. Pochi matrimoni e pochi figli. Vuoto demografico.
Così la solitudine esistenziale, metafisica, diventa solitudine concreta, di
tutti i giorni. Così Englaro, annunciatore non della buona novella, non della
resurrezione, ma della morte “autonoma”, può avere tanti fans. Oggi che la vita
è sempre meno sacra, perché non vi è più Dio, può rimanere, sacro, il dolore? Può
rimanere evento da preparare, cui giungere “parati” (estote parati, si diceva
un tempo), la morte? Se è il nulla eterno che ci aspetta, il nulla ci circonda.
Circonda vita e morte. Balzarci dentro, prima o dopo, per un infarto o per
suicidio assistito, cambia nulla…
Da “Il Foglio”, 30/08/12
Nessun commento:
Posta un commento