INTERVISTA - L’amore nella malattia - 14 settembre 2012 - http://www.avvenire.it
L’editore francese ha esitato a
pubblicare la storia autobiografica della giornalista Anne-Dauphine Julliand,
turbato non soltanto dalla vicenda in sé, la malattia e la morte di una bambina
di tre anni, ma anche per l’atteggiamento della madre, autrice del racconto,
che poteva sembrare quasi allucinato nella scelta di vedere il lato migliore
delle cose, nella caparbia costruzione di occasioni di gioia per la piccola
Thaïs. Eppure questa guerra d’amore contro la disperazione ha conquistato il
cuore dei lettori, e Due piccoli passi sulla sabbia bagnata (Bompiani, pp.242,
euro 16,00) è diventato un best seller. Ecco la storia: Anne-Dauphine e Loic,
una solidissima coppia, hanno un figlio di quattro anni, Gaspard, e una figlia
di due, Thaïs, che si scopre affetta da una rara e fatale malattia genetica,
proprio mentre aspettano un’altra figlia, che alla nascita risulta anch’essa
malata.
Ferventi cattolici entrambi, non
cedono alla disperazione e riorganizzano la loro vita attorno a continui
ricoveri ospedalieri, per assicurare a Thaïs cure palliative che rendano meno
dolorosa la breve esistenza che le rimane, e per sottoporre a terapie precoci
la neonata Azylis, nel tentativo d’impedire lo sviluppo della malattia. Una
situazione tragica, ma vissuta da tutta la famiglia in una sorta di cerchio
magico al cui interno c’è posto soltanto per la luce dell’amore. Thaïs è morta
dopo un anno e mezzo, avendo perso ad uno ad uno tutti i sensi, ma non la
capacità di amare.
E i genitori hanno avuto il
coraggio di cercare un altro figlio, Arthur, fortunatamente nato sano. Ma di
questo, e della sopravvivenza di Azylis sebbene con un handicap motorio,
Anne-Dauphine non parla nel suo libro. «Non ho scritto questo libro per
raccontare la tragedia di una famiglia» ci spiega « ma per condividere un’esperienza
di vita, per proporre una certa visione della vita. Attraverso la breve
esistenza di Thaïs, malgrado la sua malattia, ho scoperto che la vita poteva
essere bella, anche se difficile. Ho voluto parlare di tutte le belle cose che
si possono fare per amore».
Scrive: «Devo avere fiducia,
facendo leva sugli elementi positivi in nostro possesso». Questa sua capacità
di pensare sempre positivo è innata, o ha dovuto svilupparla per ragioni di
sopravvivenza?
«Ho sempre avuto un’attitudine
alla felicità, sono naturalmente ottimista, ma non sarebbe stato sufficiente
per attraversare una tale prova. Apprendendo la malattia di Thaïs, mio marito
ed io abbiamo deciso che non avremmo subito la vita che ci si prospettava, ma
che l’avremmo vissuta a fondo. Abbiamo promesso a Thaïs che avrebbe avuto una
bella esistenza e avremmo fatto di tutto perché fosse felice. Per mantenere
questa promessa abbiamo dovuto imparare a pensare in un modo diverso, per
vedere la vita in modo diverso. Abbiamo fatto nostra la frase del professor
Bernard: 'Bisogna aggiungere vita ai giorni, quando non si possono aggiungere
giorni alla vita!' Ci siamo fissati sull’essenziale: la vita stessa. Le
semplici gioie quotidiane, la felicità dello stare insieme. Abbiamo vissuto
questo periodo senza proiettarci nell’avvenire, ma avanzando un passo dopo
l’altro. E, grazie a Thaïs, abbiamo capito che una vita, per breve che sia, non
è mai piccola».
Questa vostra forza può apparire
sovrumana, e in effetti nasce dalla fede. Ma una fede messa così a dura prova,
può non vacillare?
«Ho pianto tanto, ma non mi sono
mai ribellata, perché non mi sono mai posta la questione del 'perché'. Ho
sempre mirato a sapere come procedere. La fede ha illuminato tutta questa prova
come una lampada che faceva luce sul ripido sentiero di montagna sul quale
dovevo arrampicarmi. Credere in Dio non attenua la sofferenza umana, ma
permette di vedere ciò che accade da un altro punto di vista, conferendo una
dimensione in più. Non ho mai pensato che Dio mi abbia imposto una disgrazia,
ma che mi proponesse di accompagnarci, di essere insieme a noi nel viverla. E
in quel doloroso percorso abbiamo sempre percepito la compassione di Dio».
Qualcuno vi avrà accusato di
egoismo, perché avete fatto nascere dei figli ad alto rischio di vivere nella
sofferenza: qual è la sua risposta?
«È una questione molto delicata.
La sofferenza di un bambino è una delle cose più difficili da accettare,
secondo Dostoevskij rende il mondo un’assurdità. Ma la vita di Thaïs ci ha
portato a vedere le cose diversamente, perché i bambini di fronte al dolore
hanno una reazione che ci supera. Thaïs aveva crisi dolorose, ma piangeva
soltanto durante le crisi, per il resto viveva l’istante presente, senza
compiangersi. È uno dei più begli insegnamenti che abbiamo tratto dalla sua
vita. L’insufficienza dei farmaci nel toglierle il dolore mi faceva sentire
impotente, finché abbiamo capito che le medicine non sono l’unico analgesico:
c’è sempre la forza dell’amore. Ogni madre, quando un figlio si fa male, non si
limita a disinfettarlo, ma lo prende in braccio e lo coccola. Noi con Thaïs
abbiamo amplificato questo comportamento istintivo: più soffriva, più la
consolavamo con il nostro amore. Perciò in nessun momento noi abbiamo sofferto
a causa di Thaïs, ma insieme a lei, questo è l’amore vero che abbiamo
sperimentato. E oggi posso dire che il dolore e la felicità non sono
incompatibili. Questa felicità è accessibile a tutti perché si appoggia
sull’amore, quello che si riceve e quello che si dà».
Daniela Pizzagalli
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